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Atlante Geopolitico, la Cina: la sfida per la leadership economica mondiale

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E dunque, dove eravamo rimasti? Nella puntata precedente si tentava di illustrare a grandi linee il piano supremo del governo di Pechino: realizzare un cambio di rotta netto dal sentiero del progresso “universale” tracciato dagli USA all’indomani del ’45. Tuttavia, a livello pratico come si sostanzia tutto ciò? Quali iniziative e strategie economico-militari sta portando avanti la Cina per trasformare l’ordine mondiale? Innanzitutto, essendo la seconda economia del pianeta, con un PIL stimato in 18 trilioni di dollari, le armi a sua disposizione sono prettamente commerciali. Conduce guerre di tipo fantasma basate sullo spionaggio, avvalendosi poco spesso del cosiddetto hard power. Non ne ha bisogno. La possibilità di accedere all’enorme mercato cinese stimola già di per sé l’appetito di quei paesi emergenti che per molto tempo non hanno avuto nulla, incoraggiandoli a sottoscrivere accordi poco trasparenti, legati spesso ad una forte condizionalità. Con la Belt and Road Initiative, il governo cinese elargisce un ingente flusso di prestiti a tassi agevolati per finanziare la creazione o il potenziamento delle infrastrutture commerciali necessarie a diffondere la sua visione del mondo, cooptando più alleati possibili.

 

Tuttavia, poiché si sta trattando un gigante come la Cina, ai fine della nostra analisi è utile sistematizzare e suddividere le aree del mondo dove la presenza cinese viene percepita particolarmente acuta. Primo fra tutti, l’indo-pacifico naturalmente e la fragile questione taiwanese. Militarmente, molti analisti ritengono che gli USA stiano fraintendendo il rischio. Washington, convinta che la presa dell’Isola di Formosa avverrà nel segno di una eclatante invasione anfibia, si aspetta un vero e proprio atto di guerra su larga scala. Al contrario, se osserviamo attentamente le azioni concrete messe in atto da Pechino ci accorgeremmo come queste si sostanzino in piccole mosse di pressione, in una tecnica che gli analisti definiscono salami-slicing, o anche detta volgarmente in italiano, la tecnica del taglio del salame: una serie di piccole azioni che, rimanendo sotto la soglia di quello che può essere definito un vero e proprio atto di guerra, sono volte ad alterare gradualmente lo status quo politico dell’Isola, logorando e neutralizzando un poco alla volta le difese di Taiwan. 

Nell’indo-pacifico, il Dragone sta però infilando i suoi artigli in diverse aeree strategiche, utilizzando simultaneamente sia leve militari che commerciali. Il modus operandi è sempre lo stesso. Il Partito Comunista si serve strumentalmente di aziende private, solitamente familiari e con pochi azionisti, le quali stringono per conto del governo cinese accordi commerciali con i paesi interessati. Una prassi utilizzata già nell’800 anche dalla Compagnia delle Indie Orientali britanniche. Nulla di nuovo dunque. Una vera e propria forma di neo-colonialismo attraverso cui le aziende investono in territori strategicamente rilevanti, costruendo infrastrutture e creando economia di scale. Al contempo ne sfruttano le risorse, influenzando simultaneamente l’azione dei governi locali. E così, la China Sam Enterprise Group ha negoziato per conto di Pechino una locazione per 75 anni su una regione delle Isole Salomone che un tempo ospitava basi navali britanniche e statunitensi per installarci un porto a fini militari. Ancora, nelle Filippine investitori cinesi dagli opachi legami con il governo hanno puntato gli occhi sull’isola di Fuga, nello stretto che separa l’arcipelago da Taiwan dove intendono costruire una “Smart City” con l’obiettivo, neanche troppo velato, di monitorare il traffico merci nello stretto. E ancora, in Cambogia un’azienda controllata dallo Stato ha investito ben 3,8 miliardi di dollari su un’area che ricomprende un quinto della costa cambogiana costruendoci un aeroporto militare. 

Dall’altra parte, su un piano ufficiale, a livello commerciale il governo cinese ha stipulato un accordo di libero scambio, il Regional Comprehensive Partnership Agreement, coinvolgendo quasi tutti gli attori chiave dell’area indo-pacifica tra cui, pensate un po’, anche i fedeli alleati della Casa Bianca: Giappone, Australia, Corea del Sud e Nuova Zelanda. Il Dragone si è inserito in un vuoto lasciato proprio dagli USA all’indomani dell’improvvida decisione presa sotto l’amministrazione Trump di sfilarsi da un altro accordo strategico nel pacifico, il Trans-Pacific Partnership. Una critica che viene infatti spesso mossa al governo di Washington è essersi concentrato negli ultimi anni prettamente sugli aspetti militari e meno su quelli commerciali, considerati secondari. La Cina ha semplicemente sfruttato al meglio un errore di calcolo dell’amministrazione americana che ora sta invece cercando di aggiustare il tiro. Ed è proprio l’atteggiamento “aggressivo” cinese nei confronti dei suoi dirimpettai (14 paesi disposti su 22.800 Km di confine, tra cui Pakistan, Russia, India, Giappone, Corea del Sud, Vietnam e Filippine) che può far gioco agli americani. Molti di questi, per paura di essere fagocitati nell’orbita cinese, si stanno ora avvicinando allo zio Sam d’America (vedi l’India o la rinnovata alleanza Giappone-Corea del Sud). La risposta cinese è sempre la stessa: rappresaglie commerciali. Queste, tuttavia, in un circolo vizioso senza fine, non fanno altro che spingere, non solo gli Stati, ma anche le maggiori aziende a diversificare e abbandonare il continente cinese (vedi Samsung), facendo esse stesse, consapevolmente o inconsapevolmente, il gioco degli USA.

 

Anche un’altra terra meravigliosa, culla della nostra civiltà, è vittima dell’espansionismo cinese: il Medio-Oriente. Da sempre controllato dagli americani – e quanti disastri hanno combinato! – esso è oggi corteggiato anche dal governo cinese. Proprio a marzo, l’Arabia Saudita, storica alleata degli USA, e l’Iran hanno sottoscritto un accordo che sancisce definitivamente la fine delle loro ostilità dopo sette anni di guerra di prossimità in Yemen. E indovinate chi ne ha facilitato il riavvicinamento e ne ha fatto da mediatore? La grande Cina naturalmente che, sfruttando il sentimento anti-americano diffuso tra la popolazione, si è inserita a pieno titolo nelle spinose dinamiche mediorientali. Non solo, nel 2021 il Dragone ha sottoscritto una partnership strategica con l’Iran diventando, al contempo, maggior partner commerciale e importatrice di petrolio del governo saudita. Posso solo immaginare come gli americani si stiano ora mangiando le mani. Stiamo dunque assistendo al declino dell’egemonia statunitense proprio su un territorio dove tanto si sono impegnati negli ultimi trent’anni (non ottenendo pressoché nulla di buono). 

Ma facciamo un altro volo pindarico e imbarchiamoci vero il Sud America. Una terra che ha sempre dovuto fare i conti con un unico partner privilegiato (con l’eccezione di Cuba), Washington. Fin dai tempi in cui, nel 1823, il Presidente americano Monroe dichiarò la supremazia degli USA sull’intero continente americano. Tuttavia, mentre in Centro-America Pechino sa di dover andarci piano, attenta a non superare una linea rossa che lega da sempre questa terra ai destini degli USA (pensate all’influenza americana su Panama e Porto Rico), nell’America Latina profonda le regole stanno cambiando. L’interscambio commerciale aggregato Cina-Sud America è passato, tra il 2000 e il 2021, da 12 a 445 miliardi di dollari. In vent’anni, un salto di quasi 333 miliardi, niente male non credete? Non solo, diverse banche di Stato cinesi dal 2005 al 2021 hanno elargito ben 139 miliardi di prestiti ai governi sud-americani per investimenti nel settore energetico e minerario, e non a caso. Il Sud-America è il maggior detentore di quello che viene chiamato l’“oro bianco”, il litio. Essenziale per la produzione delle batterie dei veicoli elettrici (nel 2022 Pechino ha prodotto più del 50% delle auto elettriche su scala mondiale), possedere il monopolio sull’estrazione del litio equivale a esercitare un fortissimo potere di mercato sulla green economy. E così, lo yuan è diventato la seconda valuta più importante dopo il dollaro, scalzando l’euro; in Peru, il Dragone si è assicurato il monopolio della rete elettrica mentre rifornisce Argentina, Brasile, Nicaragua ed Ecuador di veicoli ed equipaggiamenti per le forze di polizia, contribuendo anche alla loro formazione. Semplice bontà d’animo? Io non credo. 

L’ambizione cinese è però quella di sostituire il Canale di Panama, di proprietà del governo panamense molto vicino agli USA e maggior snodo commerciale del Centro-America, con rotte commerciali alternative, nonostante i continui sforzi cinesi per avvicinare a sé anche il governo di Panama stesso. Se davvero dovesse riuscirsi, possiamo starne certi: l’egemonia americana sul continente centro e sud-americano non può essere data per scontata in eterno. Dubito, tuttavia, che Washington non impiegherà tutte le armi a sua disposizione per impedire che questo accada.

Ma concludiamo infine il nostro viaggio nello sciagurato continente africano dove sta avvenendo una vera e propria neo-colonizzazione predatoria da parte della Cina. Il litio, come sempre, è tra gli oggetti del desiderio contesi. L’obiettivo di Pechino è quello di rendersi autosufficiente dal punto di vista tecnologico. E dunque, affinché questo accada, necessita di ogni risorsa naturale disponibile: qui entra in gioco l’Africa. In Zimbabwe, un’azienda cinese ha acquistato per 422 milioni di dollari una intera miniera. Lo stesso accade in Namibia, in Angola, e via discorrendo. Ciononostante, bisogna prendere atto della lungimiranza cinese. Sono arrivati prima di noi, hanno stretto a sé attraverso la Belt and Road Initiative i governi locali, costruendo le infrastrutture mancanti per supportare l’estrazione dalle miniere e, scacco matto, hanno cominciato a costruire sin da subito impianti di raffinazione, ma non in Africa, bensì nel loro paese, in Cina, così da assicurarsi il monopolio assoluto sulla produzione di litio, cobalto e terre rare, elementi essenziali per le nuove tecnologie. Difatti, Pechino possiede una capacità di raffinazione del 58% su scala planetaria. E indovinate un po’? I governi africani accolgono gli emissari dal Regno di mezzo con benevolenza. I cinesi costruiscono, collegano aree spesso isolate, creano economie di scala e soprattutto, assumono più velocemente degli occidentali e non hanno un’ossessione per il rispetto dei diritti umani sul posto di lavoro. Detto così, un sogno. Tuttavia, non è tutto oro quel che luccica. Diversi paesi africani, e non solo, sono sotto ricatto da parte del Dragone poiché non riescono a ripagare i debiti contratti. Un esempio tra tutti, lo Zambia, il cui debito estero di 30 miliardi di dollari è posseduto per ben 6 miliardi (il 20%) dalla Cina. Si stima che Pechino abbia sborsato fino adesso ben 843 miliardi di dollari di prestiti in giro per il mondo, portando avanti, dal 2000 al 2021,128 salvataggi per gli Stati finiti in bancarotta. La Cina si sostituisce in questo modo al Fondo Monetario Internazionale che rimane, a loro dire, un semplice prodotto americano. E cosa fa il Dragone se non puoi ripagare? Ricatta i paesi sotto il suo controllo appropriandosi della loro elettricità, come in Sri Lanka, delle loro miniere, come in Africa. 

L’economia cinese sta tuttavia rallentando, essendo cresciuta di un misero 0,8% nell’ultimo trimestre. Complice lo scoppio della bolla immobiliare, le politiche zero-Covid, la presa di coscienza da parte dei suoi vicini e degli occidentali che una troppa dipendenza dalle sue fabbriche non convenga a nessuno, soprattutto all’indomani dell’invasione dell’Ucraina. E così, la domanda aggregata interna cinese crolla, l’output industriale diminuisce, e l’export, vero motore propulsivo della sua crescita, si contrae a causa dell’inflazione in Europa e negli USA. Inoltre, il governo di Xi ha introdotto forti stimoli per l’industria, sul lato dell’offerta dunque, tralasciando quello della domanda. Tale eccesso di offerta ha tuttavia provocato un abbassamento dei prezzi, innescando un fenomeno deflattivo che, come un cane che si morde la coda, spinge a consumare meno, contraendo ulteriormente la domanda interna. 

China’s President Xi Jinping (Photo by NICOLAS ASFOURI / AFP)

Non si capisce se e quando Xi Jinping interverrà per implementare un vasto programma di stimoli economici o se piuttosto vorrà adattare l’economia ad un periodo di bassa crescita. Tuttavia, azzerare la spinta economica cinese sarebbe come vedere gareggiare una Ferrari con il motore di una Panda. Santa Panda! E dunque? Che si fa in questi casi? Si investe e ci si intesta il monopolio della produzione delle tecnologie green, assicurando al proprio paese prima di tutto un’autonomia tecnologico-energetica. E lo si fa prima degli altri, mangiandosi tutto il mercato. Ma lo si fa a anche a discapito degli altri, soprattutto di quei poveri paesi che hanno avuto in dono (o forse è stata una maledizione?) una sorprendente disponibilità di metalli e materie prime preziose. Il continente africano, che disporrà di quasi un quinto di tutto il litio globale entro il 2030, è uno dei più a rischio. Ancora una volta! Ci risiamo! Povera mamma Africa… E proprio a questo incantato continente, sfruttato, depredato e ferito nel suo orgoglio, a partire dalla prima settimana di settembre, sarà dedicato un nuovo capitolo di questa rubrica. Il nuovo protagonista di quello che viene chiamato, a buon diritto, “il secolo africano”. 

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