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La visione di Verhofstadt e Kuleba per un’Europa sovranazionale e inclusiva: l’analisi di Andrea Colli

Era il 14 settembre del 2019, un tempo non sospetto, quando Guy Verhofstadt, carismatico parlamentare europeo di orientamento liberale, durante un applaudito intervento alla convention del partito liberal democratico inglese, pronunciò una frase destinata a suscitare un discreto scalpore nella comunità politica internazionale. Nel sottolineare la necessità di una riforma profonda dell’Unione a fronte dell’incombere della Brexit, l’ex primo ministro belga tuonò dal palco: “…l’ordine mondiale del futuro non sarà più un ordine basato su stati-nazione. Sarà un ordine mondiale basato su imperi”. Quali? La Cina, ovviamente, oltre alla Russia l’India e gli Stati Uniti. 

In tempi decisamente più “sospetti”, nel giugno del 2022- a oltre un anno dall’avvio dell’”operazione militare speciale” russa – è stato il Ministro degli Esteri ucraino Kuleba a impiegare in modo più sottile, ma non meno efficace, lo stesso termine in un’intervista rilasciata al New York Times. L’Unione Europea, cui Kiev aspira appartenere, sarebbe, nelle sue parole, “il primo tentativo di costruire un impero liberale”, caratterizzato dalla convivenza pacifica di diverse nazioni e gruppi etnici, sulla base della forza della legge e non dell’oppressione violenta.

Anche per Kuleba il problema è, in sostanza, un problema di dimensione: “Capisco che per molti il termine “impero” abbia un pessimo significato; questo, tuttavia, è il modo con cui si scrive la storia. Bisogna dimostrare che entità politiche equivalenti per forza e dimensioni possano seguire principi diversi: ovvero quelli liberali, democratici e di rispetto dei diritti umani. Non quelli in cui il volere di uno prevale su tutto”. Nell’ordine futuro, insomma, le dimensioni geografiche saranno un fattore chiave, perché includeranno attributi rilevanti quali ad esempio la popolazione (in termini di disponibilità di capitale umano), risorse naturali, controllo su tecnologie strategiche, capacità offensiva e, non da ultimo, influenza culturale, più spesso definito “soft power”. 

Gli Europei hanno una comprensibile ripugnanza per il termine “impero”. Il termine richiama alla mente un passato relativamente recente in cui ognuno degli stati fondatori dell’Unione (con l’eccezione del Lussemburgo) al momento della firma del Trattato di Roma era (o era stato sino a pochissimo tempo prima) a capo di un impero coloniale più o meno vasto. Nel 1957, ad esempio, il minuscolo Belgio controllava ancora con pugno di ferro la sua ricchissima colonia centrafricana, il Congo; mentre il Ministro degli Esteri francese Pineau e il suo vice Faure apponevano le proprie firme in calce all’atto fondativo dell’Unione, i paracadutisti francesi erano impegnati in uno degli episodi più sanguinosi del processo decolonizzazione dell’Africa francese, la celebre “Battaglia di Algeri”. Proprio perché fondata da imperi (o da imperi di recente smantellati, quali Italia, Olanda e Germania), la Comunità (poi Unione) Europea in seguito apertamente rifiutò ogni riferimento al concetto stesso per definire la propria ragione d’essere.

Perché, dunque, sia Guy Verhofstadt che il Ministro degli Esteri ucraino insistono nel riproporre un termine così inviso?

Il motivo è che entrambi fanno riferimento al concetto di entità imperiale spogliandolo delle incrostazioni negative tipiche della recente cultura geopolitica europea. In termini astratti un impero è una entità sovranazionale che racchiude al proprio interno una variegata moltitudine di popoli, culture, lingue e religioni, che fanno collettivamente riferimento a una qualche forma di autorità centrale. È proprio la natura del rapporto tra tale autorità i “popoli soggetti” a fare la differenza.

Gli imperi coloniali che gli Europei “disegnarono” sulla carta geografica del mondo a partire dagli ultimi decenni del diciannovesimo secolo erano strutture politiche caratterizzate da un controllo pervasivo da parte della “madrepatria” su territori rilevanti sia per motivi di prestigio internazionale sia per fattori di natura economica. Dominanti e dominati erano rigidamente separati da una gerarchia sociale in cui si mescolavano razzismo e separazione, un miscuglio mirabilmente decritto dalla sensibilità di alcuni autori coevi come ad esempio Edward Morgan Forster nel suo bellissimo Passaggio in India.

Ma non tutti gli imperi erano caratterizzati da modelli di governo così autoritari. Nonostante fossero destinati a scomparire nel crogiolo della modernità, imperi molto più longevi di quelli coloniali europei (che raramente raggiunsero e superarono il secolo di età), quali quello Asburgico (che durò poco meno di quattro secoli), o quello Ottomano (oltre sei) furono per gran parte della loro esistenza caratterizzati da forme di governo decentrate e generalmente rispettose e inclusive delle varietà linguistiche, culturali e religiose al loro interno.

Ciò a cui sia Verhofstadt che Kuleba fanno riferimento è proprio questa nozione di un’Europa unita, capace di dare vita a una struttura politica sovranazionale (un “impero post-imperiale”, secondo la definizione dello storico politico Timothy Garton Ash) di dimensioni congrue a fronteggiare la “concorrenza” di altri imperi moderni, caratterizzata da una forma politica di governo inclusiva, rispettosa e “liberale”.

Un “impero diverso”, i cui confini si ampliano non attraverso desuete conquiste militari o operazioni di forzata omogeneizzazione culturale, ma tramite l’aggregazione del tutto volontaria di popoli desiderosi di tutelare i propri valori democratico-liberali. Per usare una felice espressione dello storico norvegese Geir Lundestad, un impero che nasce “su invito”: un invito a condividere valori comuni. Non basato sulla proiezione aggressiva esterna di autocrazie dichiaratamente ostili al concetto stesso di liberaldemocrazia.

* Department of Social and Political Sciences / Università Bocconi
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