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Competenza, banche e transizioni: sfide e opportunità. Intervista a Francesco Profumo.

Una carriera che non ha bisogno di presentazioni quella di Francesco Profumo (nella foto in evidenza). Una laurea in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino, di cui sarà poi preside della Facoltà di ingegneria e successivamente rettore, ministro dell’Istruzione durante il Governo Monti e presidente del Consiglio nazionale delle ricerche dal 2011 al 2012. Profumo inoltre è stato membro dei Cda di diverse realtà italiane importanti – tra cui Unicredit, il Sole 24 Ore, Telecom e Pirelli – e oggi è presidente della Compagnia di San Paolo e presidente dell’Acri, associazione che riunisce le fondazioni di origine bancaria.

 

Che cos’è per lei la competenza e come si riconosce?

La competenza è un qualche cosa di non tangibile, quindi apparentemente difficile da identificare. Questa è però determinata certamente dal fatto che le persone, nel corso della loro vita, hanno delle fasi di studio e delle fasi di attuazione della conoscenza che hanno ricevuto attraverso lo studio stesso. La competenza, grazie a queste, si definisce come l’operatività di una persona all’interno di un settore e altri non è che la sintesi delle conoscenze che sono state imparate durante la fase dell’educazione. In questa fase storica, dove esistono due elementi caratterizzanti come la velocità del cambiamento e l’incertezza del futuro, la competenza ha però una sua debolezza intrinseca. I modelli educativi nel corso dei secoli hanno sempre avuto una durata, diciamo, sufficiente e questo comportava che quello che si era imparato durante gli studi manteneva una sua validità per tutta la vita delle persone. Quindi il ritornare a scuola più volte era, spesso, più un’eccezione che la normalità. Adesso non è più così perché abbiamo per la prima volta una forma di rivoluzione che ha come caratterizzazione all’ausilio all’attività cerebrale quella artificiale. E certamente questo determinerà dei cambiamenti molto rilevanti che noi non siamo ancora in grado di definire ma che incominciano ad essere sotto gli occhi di tutti.

Come pensa che il settore bancario possa aiutare a migliorare il mercato del lavoro e quindi anche della formazione?

Le banche fanno prevalentemente credito, quindi, attraverso di esso, e con la loro possibilità di investire sull’educazione, possono accompagnare i percorsi delle persone. Diverse invece sono le fondazioni che hanno un’attività, oggi sempre di più, di tipo filantropico e moderno. Questo significa che, rispetto al passato, utilizzano meno fondo perduto e più strumenti finanziari sofisticati per consentire di allargare la platea, ad esempio, dei soggetti che possono usufruire della formazione. Comunque, il sistema nel suo complesso avrà una funzione molto rilevante da questo punto di vista. Abbiamo capito che le sole risorse oggi non bastano e che è necessario sempre accompagnarle. L’esempio del Pnrr ci ha segnati. Noi pensavamo che questi 209 mld tanto declamati potessero risolvere i nostri problemi e invece forse, in qualche caso, li hanno aumentati.

Quali sono gli ostacoli che dobbiamo superare per attuare l’accelerazione delle transizioni che la società ci richiede?

Credo che accanto alle tre grandi transizioni, che sono quella ecologica, quella digitale e quella di resilienza sociale, ce ne siano altre due che stanno diventando sempre più rilevanti, quella culturale e quella demografica. La transizione culturale si trova alla base dell’accompagnamento di questi tipi di processi. Il Paese avrebbe bisogno, sul tema dell’educazione e della rigenerazione delle competenze, di un progetto ventennale che parta dalla formazione dei docenti, degli spazi, dei modelli pedagogici e dalla personalizzazione degli interventi. E anche se ci si domanda come possa essere possibile in un Paese come il nostro far succedere tutto ciò, posso rispondere che in realtà noi abbiamo già avuto un’esperienza che va in questa direzione ed è quella del presidente Fanfani quando, nel primo dopoguerra, dove la priorità del Paese era la casa, fece un accordo politico ventennale sul tema degli investimenti sugli immobili. E così il Paese risolse il problema. Quindi io credo che ci potrebbero essere le condizioni perché questa cosa si possa fare.

Tecnologia e digitalizzazione stanno entrando in tutti i settori dell’economia e dell’industria. Quali sono gli aspetti positivi e quali i rischi che si celano per il mondo del lavoro?

Innanzitutto, una cosa sono gli strumenti e una cosa è la cultura. Gli strumenti digitali cambiano. Quindi dal punto di vista di un Paese come il nostro io credo che si debba soprattutto investire sulla cultura digitale e questo debba avvenire attraverso la scuola. La scuola è il primo veicolo perché un Paese possa cambiare e diventare migliore. Pertanto, penso che questo processo debba essere declinato nel modo corretto, nel senso che lo Stato lo deve identificare come una delle policy prioritarie. Però dall’altra parte esiste anche, semplicemente, una transizione generazionale per cui alcune cose che ci sembravano impossibili, anche accelerate dalla pandemia, sono diventate una quasi nuova normalità. Il pensare di avere una nuova attività industriale nell’ottica della transizione ecologica non può avvenire senza un’integrazione rispetto alla transizione digitale e tanto meno senza un rispetto alla resilienza sociale. Quindi questo mondo che sembra un mondo più complesso, un mondo più articolato, in realtà è anche molto più attraente.

Quali sono le competenze su cui si dovrebbe puntare?

La complessità del mondo che stiamo affrontando necessita competenze molto più ibride rispetto al passato e il loro invecchiamento richiede fondamentalmente che le persone più volte disimparino alcune cose e ne imparino altre. Però, in questa continua transizione, ci sono le competenze socio emozionali, che sono quelle che ciascuno di noi si porta nel proprio ‘zainetto’ della vita. La possibilità di avere da una parte una solida base composta da queste e dall’altra un’ibridazione di conoscenze e competenze in settori diversi, credo possa consentire alle persone di affrontare tematiche che probabilmente oggi non conosciamo nella giusta dimensione. È necessario un nuovo umanesimo nel quale la tecnologia è strumentale, certamente, ma dove c’è una cultura di base molto più rotonda e che consenta alle persone di avere una prospettiva di vita, io mi auguro, di qualità.

 

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