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L’Open innovation spiegata dal suo ‘papà’: intervista a Henry Chesbrough

Luiss Henry Chesbrough open innovation 3

L’open innovation che spinge le aziende ad aprirsi a idee esterne per crescere (un consiglio ormai ampiamente accettato da quasi tutti i grandi Gruppi industriali) ha un anno di nascita preciso: è il 2003 quando Henry Chesbrough pubblica il saggio ‘Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology’. Per questo il professore, scrittore ed economista americano è considerato il padre dell’open innovation: è merito suo se oggi innovazione e ‘Ricerca e sviluppo’ (il cui costo, così elevato per le aziende, è alla base dei suoi studi) significano cose diverse.

Così come è merito suo se l’espressione open innovation riempie oggi più di un miliardo di risultati di ricerca su Google e i curriculum di centinaia di migliaia di innovation manager. “Effettivamente, se cerco open innovation su LinkedIn escono fuori centinaia di migliaia di nuovi professionisti”, dice sorridendo il professore durante un’intervista con Fortune Italia.

Chesbrough dirige a Berkeley il Garwood Center for Corporate Innovation, uno dei più grandi centri di ricerca sull’innovazione al mondo. Insegna però anche in Italia, come ‘MAIRE Chair Professor di Open Innovation and Sustainability ‘alla Luiss Guido Carli di Roma. Proprio in un evento alla Luiss di Roma il guru americano ha celebrato i 20 anni di vita della sua creatura. Davanti a lui i Ceo, i manager e gli innovation officer di tanti Gruppi industriali (Maire, Adr, Renault Italy, Angelini Ventures).

“Sono stati 20 anni meravigliosi ma non siamo alla fine del percorso. Abbiamo lavorato per istituzionalizzare questo approccio attraverso la ricerca”, dice il professore. “Questo gennaio finalmente ci sarà un ‘Oxford handbook of open innovation’. Si creano in questi anni, come alla Luiss, le prime cattedre di Open innovation. Questi sviluppi significano che il lavoro continuerà ed evolverà”.

 

Cos’è l’open innovation…

La definizione più diffusa di Open Innovation è realtivamente semplice: si tratta di un paradigma secondo cui le imprese fanno ricorso a idee esterne ma anche interne, accedendo con diversi percorsi (ancora una volta interni o esterni) ai mercati. “È stato davvero entusiasmante negli ultimi 20 anni vedere l’Open innovation diffondersi in molte parti del mondo”, dice il professore a Fortune Italia.

Sono stati gli studi di Chesbrough a spiegare perché le neonate startup degli anni seguenti avrebbero vinto le proprie battaglie con i grandi, o perché i brevetti spesso non arrivano al mercato (un problema che ancora affligge oggi le università italiane).

D’altronde, Open innovation significa tante cose: approccio open source, licenze e brevetti, collaborazioni con le università e con le startup, corporate venture capital. “Adesso il venture capital sta diventando un motore per l’R&D”, ha detto Paolo Di Giorgio, Ceo di Angelini Ventures, durante l’evento: una delle testimonianze di come il libro di Chesbrough abbia anticipato molto di quanto stia succedendo ora.

Chesbrough riassume tutte queste declinazioni con il termine ‘flusso di conoscenza’: da dentro a fuori l’azienda e viceversa. Dopo 20 anni di hype (come spiega l’ultimo libro del 2020 del guru americano, edito in Italia dalla Luiss con una prefazione del rettore Andrea Prencipe) l’Open Innovation sta cambiando, racconta il professore.

…e come è cambiata

Parliamo ancora di un modello di innovazione che coinvolge modelli di conoscenza che si muovono “intenzionalmente” dentro e fuori le organizzazioni per scopi economici e non economici, riassume Chesbrough. Ma il modo in cui l’informazione si muove ha cambiato direzione: l’innovazione si è aperta così tanto che ora vanno gestite anche le relazioni tra i diversi attori interpellati dall’azienda, come startup e università. Una sorta di flusso Out-Out, che si aggiunge a quello Inside-Out degli ultimi venti anni.

La storia dell’Open innovation (e la capacità di predire il futuro)

L’open innovation “è nata come un quadro di riferimento per le organizzazioni per innovare non solo con la conoscenza che già avevano, ma anche per consentire alle conoscenze di altri di essere utilizzate nella loro attività di innovazione, e alle loro stesse conoscenze di essere utilizzate da altre organizzazioni”, spiega il professore. “E questo è diventato l’approccio outside-in and inside-out dell’open innovation. Quindi è così che abbiamo iniziato 20 anni fa. Oggi l’open innovation viene utilizzata sempre di più per grandi sfide come la sostenibilità, che nessuna organizzazione può affrontare da sola. Bisogna connettersi e collaborare insieme. Quindi le pratiche e le competenze che si apprendono nell’open innovation si sono rivelate molto rilevanti per affrontare le grandi sfide”, racconta il professore.

 

Un momento dell’evento Luiss dedicato ai vent’anni dell’Open innovation: oltre a Henry Chesbrough, presenti Andrea Prencipe, Rettore Luiss, Paolo Di Giorgio, Amministratore Delegato di Angelini Ventures, Diana Saraceni, Fondatrice e Managing Partner, Panakès, Antonio Batistini, Direttore Innovazione Tecnologica MAIRE, Ernesto Ciorra, Ex Direttore Innovability Enel, Emanuele Calà, VP Innovazione e Qualità, Aeroporti di Roma, Gabriella Favuzza, Head of Future Mobility & Public Affairs at Renault Italia, Alessandro Zattoni, Direttore del Dipartimento di Impresa e Management Luiss.

 

Effettivamente, quel libro scritto nel 2003, quando non esistevano neanche gli smartphone, ha anticipato molto di quanto successo oggi.

“Il professor Henry Chesbrough è “IL” riferimento assoluto quando parliamo di modelli di Open Innovation. Ha avuto la capacità di leggere, prima di tutti, l’impatto dell’evoluzione tecnologica e della diffusione della conoscenza scientifica sui mercati e sulle organizzazioni aziendali”, dice Emanuele Calà, Innovation manager di Adr, a margine dell’evento.

“Le teorie di Henry” sono diventate pratica comune in tutto il panorama dell’innovazione, ma anche in quello della sostenibilità, ha detto Ernesto Ciorra, Ex Direttore Innovability Enel, durante il convegno.

 

Tre regole per gli innovation manager

Se le sfide per l’open innovation sono cambiate, come è cambiato il mestiere di chi si occupa di innovazione? Provando a immaginare una guida per i manager dell’innovazione, ecco le prime tre regole da seguire secondo Chesbrough.

  1. Sii umile: “Bisogna rendersi conto che c’è così tanta conoscenza utile disponibile nel mondo oggi che è buona pratica, prima di iniziare a fare il tuo lavoro, controllare e vedere cosa è già stato fatto esternamente e che potresti essere in grado di usare”, dice il professore.
  2. Pensa al resto dell’azienda: gli innovation manager devono pensare agli altri componenti dell’impresa e a “cosa dovranno cambiare per lavorare bene con voi sull’open innovation. Se stai lavorando con una startup e la startup sta facendo cose meravigliose, queste cose non riguardano solo ricerca e sviluppo. Potrebbero influenzare la produzione, le operazioni o il marketing, potenzialmente anche la distribuzione e le vendite. Quindi queste altre divisioni devono essere allineate”.
  3. Pensa al modello di business: secondo il professore il modello di business deve creare valore e l’innovation manager deve trovare il modo di “trattenere una parte di quel valore. Se hai un modello di business solido, spesso puoi battere una tecnologia migliore della tua”.

 

Il paradosso dell’innovazione

Nel suo ultimo libro del 2020 (edito in Italia proprio grazie alla Luiss) Chesbrough spiega che il paradosso della tecnologia risiede nello stesso ‘hype’ dell’innovazione.

C’è sempre più innovazione grazie al progresso tecnologico, ma la produttività non sta aumentando. Un paradosso ancora in corso. “In questi giorni si parla molto di digitalizzazione. Parliamo di intelligenza artificiale. Parliamo di addestrare gli algoritmi a fare cose più utili”, dice Chesbrough. “Ci sono alcune organizzazioni che stanno ottenendo grandi risultati con questo. Ma ci sono molte, molte altre organizzazioni che non hanno i loro dati organizzati in modo da poterlo fare utilmente. E così vengono lasciati indietro. E questo, credo, è ciò che c’è dietro questo paradosso del progresso tecnologico. La crescita della produttività rallenta piuttosto che crescere più velocemente”.

Il problema italiano del trasferimento tecnologico

La domanda è: le aziende stanno affrontando queste sfide nel modo giusto?

Il ‘flusso di conoscenza’,  in particolare in Italia, è ancora un problema da risolvere: abbiamo molti brevetti, ma non abbiamo molto trasferimento tecnologico.

“Sono in Italia ormai da diversi anni, grazie a Luiss, e ho avuto modo di conoscere meglio la cultura dell’innovazione qui in Italia. Le grandi aziende hanno molti brevetti e le università creano molte nuove ricerche, alcune delle quali sono brevettate. Ma a volte questi brevetti si bloccano. Non vengono utilizzati nell’organizzazione stessa e non vengono trasferiti, concessi in licenza o donati ad altri. Che cosa si deve fare per sbloccare questi brevetti? Bisogna mobilitare non solo la conoscenza, ma anche le persone, per poter vedere quelle tecnologie brevettate. Per le persone che inventano queste tecnologie, è importante che vedano di persona questi altri contesti, in modo da poter iniziare a immaginare altri modi per usarle”.

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Dall’Open innovation a OpenAi

Nel panorama dell’innovazione l’impatto dell’intelligenza artificiale non può essere ignorato. Soprattutto considerando che proprio il modello di open innovation è stato fondamentale per la diffusione dell’applicazione più rivoluzionaria degli ultimi anni, ChatGpt. “OpenAi, che è l’organizzazione che ha introdotto Chat GPT, ha una grande partnership con Microsoft, una sorta di Open innovation, si potrebbe dire, in particolare dal punto di vista di Microsoft. Ma ci sono anche altre organizzazioni che stanno sviluppando l’intelligenza artificiale, comprese le implementazioni software open source dell’AI. Penso che quello che vedremo non è solo un modello dominante come GPT 3.5 o GPT 4″.

Secondo il padre dell’Open innovation “ci saranno molte altre implementazioni, alcune più piccole, altre specifiche per le singole organizzazioni. Questi modelli più piccoli potranno essere adattati al tuo contesto specifico e questo lo rende più pratico e più utile per te”.

L’AI rappresenta un rischio per il modello di open source e Open innovation attuale? Secondo il professore no, perché “con l’open source l’AI si diffonderà e tutti potranno ‘vederla’. E quando ci saranno persone che la useranno nel modo sbagliato, o criminale, tutti potranno prevenire quei comportamenti o correggerli. Mentre in una grande azienda dopo un reclamo potrebbero passare settimane o mesi prima che qualcuno provi a risolvere il problema”.

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