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Lobbisti e faccendieri, come spiego a casa che lavoro faccio?

Quando scendo al paese da me per le feste capita che l’amico del liceo mi chieda che lavoro faccio, perché dalle storie di Instagram non ha ben capito, confondendo forse l’utilità di quel social con quella di LinkedIn. Genericamente mi limito a dire che mi occupo di comunicazione, perché fuori dal contesto lavorativo non amo parlare di lavoro. 

Ma nella vaghezza la curiosità diventa più acuta, e la risposta è sempre “cioè?”. Quindi dico che faccio il lobbista, gettando lì un argomento criptico, sperando che possa spegnere la conversazione e si possa finalmente tornare a parlare di vacanze, dei bei tempi andati, o di quella ragazza che proprio non riesco a capire. Così, chi coglie, cambia finalmente argomento. Chi non coglie dice “ah sì” facendo finta di aver colto. Chi è più audace continua, e dice “ok ma quindi?”. Allora aggiungo con la padronanza di chi lo ha ripetuto tante volte che – in buona sostanza – aiuto le imprese a raccontare i loro interessi alla politica, e puntualmente qualcuno ribatte “ma è legale sta roba?”. 

Perchè la gente non sa che cos’è il lobbying

Mi sono chiesto perché la gente si interroghi sulla liceità del mio lavoro, e le risposte sono chiare, forse ce ne sono tre su tutte. Ma prendetele con cautela perché sono l’ultimo arrivato qui. La prima è che il mainstream comunicativo, un po’ per necessità di sintesi, un po’ per utilizzo di inglesismi che fa sempre figo e l’ho appena fatto anche io, un po’ per ignoranza (nel senso di ignorare) ha da sempre confuso i lobbisti con i faccendieri. 

E forse è anche vero che all’inizio di questa professione, ancora non regolamentata, i secondi si auto-definissero lobbisti. Ma in questi anni giuristi illustri, scienziati della politica, esperti comunicatori e lobbisti stessi hanno costruito una dottrina, anche comparata con le prassi e l’evoluzione di altri Paesi, che ha trasformato questa attività di mediazione strategica in una professione con le sue regole, le sue competenze, le sue ore di studio e di dedizione a supporto; molte anche oltre i canonici orari d’ufficio perché, come avviene per la politica, e questo sì è un punto in comune, non esistono giorni o ore di riposo. Le migliori università d’Italia hanno attivato corsi e master che indirizzano al lobbying, e sempre di più sono i giovani professionisti che, avendo studiato da corposi manuali di diritto e scienza politica, esercitano con onore, dignità e serietà questa professione.

Il secondo motivo è che questo lavoro, per come lo intendiamo noi, è principalmente circoscritto nella città di Roma. Sì esistono attività territoriali, regionali, cittadine, ma il “core” delle agenzie, dei think tank, delle boutique che si occupano di lobbying ha sede qui, per comodità, accanto ai palazzi del potere. Ed è da qui che nascono e si irradiano le iniziative che arrivano fino alla più piccola provincia, in quel gran paesone che tutto sommato è l’Italia. Questa limitata diffusione rende meno quotidiano l’approccio a un lobbista per chi vive nel mondo vero, nella sua vita reale, fatta di lavori canonici, spese da fare, sogni di topping per i letti e tostapane digitali. 

Il terzo motivo è che un po’ questa fama ce la siamo costruita noi. Sì la storia dello stare dietro le quinte, degli uomini ombra, grigi (neanche più la Fiat fa le macchine grigie), inesistenti come valore aggiunto, serve un po’ per darci un tono, a noi seconde linee, che non siamo riusciti ad arrivare o a rimanere nelle prime, o non ne avevamo le caratteristiche. Io mi sono innamorato di questo lavoro, ma è anche vero che ognuno di noi ha uno scopo ultimo nella vita: dare un senso di valore a quello che fa o si ritrova a fare, per stare in pace con i rimpianti delle cose mancate. 

Attenzione, credo sia vero che si debba avere parsimonia nell’ostentazione, ma questo discorso vale per tutti. Il senso di opportunità, di quello che comunichiamo, dovrebbe essere l’unica lezione da seguire al master su come si sta al mondo. Quindi, ecco, credo che per normalizzare verso l’esterno il nostro lavoro ci si debba rappresentare con una presenza orgogliosa e un’aperta trasparenza. Allo stesso tempo credo che il buon consulente non debba “apparire” più bravo del suo cliente, ma solo perché nel mercato del tempo noi vendiamo le nostre idee, affinché possano essere usate e rivendicate da altri. 

Poi c’è che Roma è una città divertente, della dolce vita e della vita lenta, della settimana corta inventata prima che in Svezia, dove tutto (apparentemente) si concentra dal martedì al giovedì, ma non è così. È anche vero che il pensiero comune sopravvaluti i lobbisti, influenzato da serie tv, film e chiacchiericcio superficiale, e che certamente il nostro ego narciso preferisce essere sopravvalutato che sottovalutato. 

I lobbisti che ho incontrato io in questi anni sono ben lontani dall’essere Remy Danton di House of Cards, e mediamente sono occhialuti secchioni, alle prese con il monitoraggio legislativo, la stampa di settore da seguire, le mail da scrivere e i resoconti da preparare. Non è nemmeno detto che siano così propensi alla socializzazione, ma tutti hanno in comune creatività, capacità di capire il mondo che cambia, di parlare il linguaggio della politica, di scrivere indirizzando a tecnici, cittadini e decisori.

Perchè ho scelto questo lavoro o perché questo lavoro ha scelto me

Il motivo per il quale (personalmente) ho scelto di fare il lobbista è lo stesso motivo per il quale ho scelto prima di impegnarmi nella rappresentanza studentesca, poi in un partito, e poi di studiare giurisprudenza, tutto con esiti privi di particolare brillantezza. E sta nel fascino di ottenere la giustizia nelle cose.

Una giustezza, di cui da bambino piccoletto e in carne forse mi sono sentito privato, perché da bambini tutti noi siamo stati sopraffatti dai più forti, nel migliore dei casi dalla loro cruda e violenta sincerità. Forse anche complice il racconto di mio nonno che parlandomi di Re Salomone, che a Dio avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa e ogni ricchezza, chiese per sé la saggezza e un cuore intelligente: per realizzare cose giuste. 

Mi resi conto che per rappresentare le mie ragioni, certo, di parte, avrei dovuto ragionare strategicamente, studiando il pensiero delle persone, che è alla base delle scelte, anticipando nella mia testa le loro reazioni, ragionando sul come comunicare selezionando “con cura le parole da non dire”.

Con il tempo ho capito che se non avessi avuto anche una solida preparazione tecnica, verticale sugli argomenti, il convincimento sarebbe riuscito a metà. E certo avere una ricca rubrica telefonica avrebbe aiutato, ma non sarebbe bastato se non avessi saputo cosa dire e come dirlo. 

La rappresentanza di interessi è questo, raccontare al decisore – che non è onnisciente – informazioni che lo aiutino a decidere. Non usiamo altra merce di scambio che non siano le nostre idee, e non per prevalere con forza sulla democrazia, ma per aiutarla a compiersi, perché sarà sempre la politica a scegliere. Come l’avvocato agisce con il giudice, noi lavoriamo perchè le incosapevolezze non creino danno alle aziende, ai nostri clienti e quindi, in ultima istanza, ai cittadini. 

È per questo che faccendieri e lobbisti non sono la stessa cosa. È per questo che dobbiamo pretendere un cambiamento lessicale e culturale attorno al nostro lavoro. È per questo che pensiamo sia giusto ottenere una regolamentazione trasparente, di riconoscimento della realtà, che offra finalmente dignità a questo impegnativo ma stupendo lavoro. Così, tra l’altro, sarò più sollevato quando in paese mi chiederanno che lavoro faccio.

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