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Suez e la crisi dei ribelli Houthi: una minaccia per il commercio mondiale

Prima i droni intimano alla nave di rallentare. Subito dopo, un rombo, un suono assordante. Poi, dal nulla, un missile la affonda e tre persone dell’equipaggio rimangono ferite a morte.

La nave portacontainer greca  True Confidence viene colpita e gravemente danneggiata (è alla deriva) nel Mar Rosso, il primo dei tanti attacchi terroristici che ha provocato la morte di tre persone di nazionalità filippina.

Il quadro geopolitico

È un fragile equilibrio quello che si consuma al largo delle coste dello Yemen, alle porte dello stretto di Bab al-Mandab. Uno dei tanti fronti di quella che viene ormai chiamati la “terza guerra mondiale a pezzi”.

Da quel fatidico 7 di ottobre, quando, all’indomani della brutale carneficina antisemita da parte di Hamas, la polveriera mediorientale si è risvegliata con un nuovo bagno di sangue.

Da quel giorno in poi, la milizia sciita yemenita, gli Houthi, finanziati dalla potente Repubblica Islamica, ha incominciato a far sentire la propria voce, riportando quella striscia di mare dai rossi coralli che le hanno dato il nome ad uno stato di natura hobbesiano: la guerra di tutti contro tutti, se non fosse però che proprio attraverso il canale di Suez transita il 13% del commercio mondiale.

Le merci italiane rappresentano il 15,2% del totale delle importazioni dall’estero e l’8,7% delle esportazioni (Fonte Analisi Difesa)

Inaugurato nel 1869, la sua costruzione fu ideata inizialmente dall’ingegnere italiano Luigi Negrelli, poi realizzato dal francese Ferdinand Lesseps, come spesso è accaduto nella storia: noi ci mettiamo la testa, altri, con più risorse, la realizzano. Da subito, il canale ha destato gli interessi delle potenze del tempo, prima fra tutti, l’Inghilterra. Una potenza marittima non poteva farsi scappare di certo l’occasione di gestire e monitorare il traffico del canale di Suez, ponte tra Oriente ed Occidente.

Ad oggi, il 30% del traffico portacontainer passa da lì. A tal proposito, se dovessimo fare un esempio tangibile di che cosa significhi globalizzazione, ecco, l’invenzione del container potrebbe fare al caso nostro.

Le navi portacontainer, ampie scatole in cui poter stipare un’infinità di prodotti, costituiscono solo il 15% del commercio mondiale, eppure più del 50% delle merci vengono trasportate al loro interno. Questa tipologia di imbarcazioni rappresenta il bersaglio predefinito degli Houthi.

Gli Houthi

La milizia saltò alle cronache allo scoppio della guerra civile yemenita, un conflitto per troppo tempo dimenticato e di cui molte persone hanno sentito parlare poco o nulla. Eppure, viene considerata una delle guerre più sanguinose degli ultimi anni che ha mietuto più di 300 mila vittime. Ebbene, nel 2014, per l’effetto domino provocato dal fenomeno sociale delle primavere arabe, in Yemen scoppiò una feroce guerra intestina tra le forze filo-governative, sunnite, appoggiate dall’Arabia Saudita e una fazione sciita, gelosa della sua autonomia, finanziata, addestrata e appoggiata nell’ombra dalla casa dell’Islam sciita, l’Iran.

Alcune persone passano davanti agli edifici distrutti durante la guerra tra la Resistenza Popolare e le milizie al-Houthi nella città di Taiz, Yeman

Gli Houthi entrarono dunque a far parte di quello che viene chiamato “l’asse della resistenza”, un’alleanza trasversale a tutto il Medioriente contro l’influenza statunitense nella regione e l’esistenza dello Stato d’Israele. Hamas, Hezbollah, Jihad Islamica, milizie sciite in Siria e Iraq, gli Houthi rappresentano quelli che in linguaggio tecnico vengono definiti “proxies” dell’Iran, entità di varia natura che svolgono il lavoro sporco per conto di Teheran. La Repubblica islamica è ben consapevole di non possedere le risorse economiche e militari adeguate per uno scontro diretto contro gli Stati Uniti nella regione. Per ora.

Così, proprio quando si pensava che nel 2022 la guerra civile yemenita stesse esaurendo la sua spinta propulsiva, grazie ad un’estenuante negoziazione tra gli Houthi, che avevano preso il controllo della capitale San’a’, e l’Arabia Saudita, arrivarono le prime immagini terrificanti di quel sabato nero (7 ottobre) e la brutale esecuzione di oltre 1400 israeliani (Fonte governo d’Israele).

Da quel momento in poi, il mondo cambia. Oppressi assumono il ruolo di oppressori, un’ecatombe di massa di un popolo che, silenzioso, subisce da mesi bombardamenti a tappeto sulla loro striscia di terra martoriata, imprigionati in un infausto destino. Più di 30 mila sono i palestinesi morti sotto le bombe dall’inizio della guerra di Gaza. Già questo dice tutto, non c’è bisogno di aggiungere altro.

Gli Houthi, però, si sono accodati alla causa palestinese. Per motivi ideologici? Anche, ma c’è di più. Oltre a definirsi antisemiti e antisionisti, gli Houthi non concepiscono l’esistenza stessa dello Stato ebraico. C’è però chi ritiene come queste attività di sabotaggio del commercio mondiale facciano parte di una strategia per accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica yemenita come i veri difensori della causa palestinese, e dunque, del mondo arabo, rafforzando così la loro posizione interna.

La strategia di lungo periodo sarebbe quella di presentarsi in Medioriente come un attore regionale indipendente, da temere. Un chiaro segnale a Riad: tenendo sotto scacco l’Arabia Saudita e i suoi interessi commerciali, gli Houthi desiderano ottenere risultati più favorevoli durante il processo negoziale ancora in corso con i sauditi dopo la fine delle ostilità interne nel 2022.

Così, per suddetti motivi, da novembre gli Houthi prendono di mira le navi mercantili e i cargo che attraversano quelle acque infestate. Prima le costringono a rallentare con gli stessi droni forniti da Teheran. Poi, facendo uso di ordigni balistici, come i missili, colpiscono i loro bersagli. Prime fra tutte, le navi israeliane e statunitensi. Le seconde secondo il loro personale ordine gerarchico, sono quelle battenti bandiera dei paesi alleati con i “sionisti”, l’Occidente tutto. Escluse dai fuochi incrociati, gli alleati dell’Iran, Cina e Russia, anche se risulta alquanto complicato discernere tra buoni e cattivi in quella striscia di mare così stretta e trafficata.

La Chiquita Merchant arriva a Sheerness con un carico di cibo refrigerato mentre le consegne sono in ritardo a causa degli attacchi nel Mar Rosso

Gli impatti sul commercio mondiale

A risentirne, chiaramente, è soprattutto il commercio mondiale. Ancora ci illudiamo che la globalizzazione sia un fenomeno destinato alla scomparsa? Queste crisi ci rammentano puntualmente il contrario. La nostra economia è fatta di scambi. Ora, le maggiori compagnie di trasporto merci hanno preso una scelta. Non sono tempi ottimali per navigare attraverso Suez. Forse, pur di rimanere incolumi, sarebbe meglio allungare il tragitto passando per il Capo di Buona Speranza, circumnavigando in questo modo l’Africa.

Va da sé che, mentre un tempo la rotta Singapore-Rotterdam via Suez si snodava per 8500 miglia nautiche in un viaggio di 26 giorni, oggi la stessa rotta, passando però per il Capo di Buona Speranza, sarà di 11.800 miglia per la durata di 36 giorni. A risentirne sono i costi, e per le compagnie merci, e per le aziende, ma che verranno poi fatti ricadere sul consumatore finale. Costi più alti per l’utilizzo di carburante. Costi maggiori per sottoscrivere premi assicurativi (oggi più che mai è più rischioso navigare). Costi più alti per i noli marittimi. Il nolo medio per una portacontainer da Genova a Shanghai è aumentato del 115%, passando dai 1910 dollari dell’anno precedente ai 3577 dollari attuali in stato di crisi.

A pagarne le conseguenze, però, saremo noi consumatori. Sia per un ritardo nelle consegne generalizzato, ma soprattutto a causa di una crescita generalizzata dei prezzi delle merci. Noi italiani, poi, pagheremo le conseguenze più amare. Come prolungamento europeo verso il Nord Africa, Suez garantisce all’Italia quel vantaggio competitivo commerciale di ponte tra Europa ed Africa, ma soprattutto con l’Asia. Oggi, quel ponte è saltato in aria. Il rischio è che quel 40% di prodotti Made in Italy che transita da Suez per un totale di sei miliardi di euro annui, venga oggi reindirizzato verso il Nord Europa. La possibilità che i paesi mediterranei come l’Italia vengano serviti da navi in partenza dai porti di trasbordo più vicini allo stretto di Gibilterra è reale. La maggior parte dei cargo seguiteranno la loro navigazione verso i porti del Nord, come Rotterdam, Anversa, Amburgo, senza addentrarsi nel mediterraneo. Questi, acquisterebbero un vantaggio competitivo non indifferente e il resto delle merci destinate all’Italia giungerebbe nel nostro paese attraverso il trasporto ferroviario, con una perdita di competitività rilevante dei nostri porti maggiori, Genova in testa.

Veduta aerea del terminal marittimo e container del porto di Genova.

Uno scacco non indifferente per un paese come l’Italia che vive di esportazioni e dunque, di commercio.

Le missioni internazionali

Un motivo in più per Roma per prendere parte alle diverse missioni che il campo occidentale sta pianificando per mettere in sicurezza il commercio globale. In particolar modo, l’affondamento della Rubymar, la nave britannica carica di fertilizzanti colpita dagli Houthi e colata a picco sul fondale del mar rosso, con un potenziale rischio ambientale dagli effetti distruttivi, ha fornito il giusto incentivo.

Roma ha da poco ratificato l’entrata nell’alleanza Aspides insieme a Francia, Germania e Grecia. Un’alleanza di tipo difensivo. L’obiettivo è quello di mettere in sicurezza le navi cargo e aprire il fuoco qualora venissero colpite dagli Houthi. Da poco, il cacciatorpediniere italiano Caio Duilio ha abbattuto un drone yemenita intento in azioni di sabotaggio. Oltre all’Aspides, Stati Uniti e Gran Bretagna guidano la missione Prosperity Guardian, un’alleanza di natura offensiva. Ciononostante, i raid congiunti anglo-statunitensi alle postazioni Houthi sul territorio yemenita non hanno sortito gli effetti sperati.

Come se non bastasse, in tale quadro già di per sé a dir poco complicato, a turbare nuovamente gli animi sono le sospette azioni di sabotaggio degli Houthi ai danni di quelle che vengono definite le “autostrade subacquee”, i cavi sottomarini attraverso cui passa quasi il 90% del traffico internet mondiale. Un’ulteriore testimonianza di quanto la globalizzazione sia parte costitutiva del nostro sistema mondiale.  Così interconnessi e interdipendenti, ma così fragili davanti ad azioni che possono tagliare le telecomunicazioni planetarie. Dei 574 cavi mondiali, 16 si concentrano nel canale di Suez. Quattro in particolare sono stati danneggiati. Sembrerà strano, ma anche nell’epoca del “senza fili”, siamo ancora dipendenti dai cavi materiali che si districano lungo i fondali oceanici.

Elon Musk ci ha provato con Starlink a spostare la connettività dal suolo all’aria, ma è ancora troppo presto e il sistema poco sviluppato.

Cavo di comunicazione internet sottomarino sul fondale dell’oceano

Gli Houthi non si fermeranno. Utilizzeranno tutte le armi a loro disposizione. Faranno un gran clamore e cercheranno in ogni modo di infliggere danni all’Occidente. Finché non si imprimerà una svolta alla guerra di Gaza, la situazione non cambierà, forse si attenuerà solamente grazie alle missioni militari USA, Gran Bretagna e Ue oramai operative nel mar rosso.

Ma, un altro player globale potrebbe venire in soccorso della situazione, la Cina. Una potenza fortemente dipendente dal commercio internazionale che ha utilizzato fino adesso il canale di Suez per far transitare il 99% delle sue merci verso l’Europa.
Un attore globale che importa ben il 90% del petrolio iraniano, sostentando l’economia di Teheran e dandogli in questo modo la possibilità di finanziare i suoi proxies sparsi per il Medioriente, come gli Houthi
. La Cina ha un notevole peso decisionale in questa faccenda. Per il momento, però, rimane in disparte. Pechino attende, non vuole scoprire le sue carte. Starà ancora decidendo da che parte stare, chissà.

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