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La guerra Usa-Cina diventa sempre più valutaria. E le Borse affondano

Usa Cina guerra dei cambi

La Cina risponde ai dazi di Donald Trump lasciando svalutare lo yuan ai minimi dal 2008 e le borse mondiali affondano, temendo una guerra dei cambi. Le piazze finanziarie europee ieri hanno chiuso tutte in rosso e bruciato complessivamente 180 miliardi di dollari di capitalizzazione. Wall Street affonda e chiude la sua peggiore seduta del 2019, con perdite intorno al 3% e bruciando 700 mld. Il conto più salato dello scontro commerciale fra Stati Uniti e Cina lo paga il Nasdaq, che arriva a perdere fino al 4%, e l’amministrazione Trump, per la prima volta dal 1994, designa Pechino come ‘manipolatore di valute’ dopo che la Cina ha lasciato scivolare lo yuan ai minimi dal 2008 in risposta ai nuovi dazi del tycoon su 300 miliardi di prodotti Made in China.

Giornata nera, quella di ieri, per Apple: archivia la seduta in calo del 5,23%. Giù anche il petrolio mentre corrono i beni rifugio. L’oro sale ai massimi dal 2013, mentre il Bitcoin schizza a quasi 12.000 dollari. Le vendite sui mercati azionari globali sono innescate dalla risposta forse inattesa della Cina a Trump nella guerra dei dazi. Pechino ha infatti lasciato svalutare fino a sette yuan per ogni dollaro la sua valuta. E ora il mercato teme che la guerra commerciale diventi anche una guerra dei cambi. La Banca centrale di Pechino afferma che non si tratta di una mossa voluta, ma la risposta per ora verbale del presidente statunitense non si è fatta attendere. “La Cina ha abbassato il prezzo della sua valuta quasi a un minimo storico. Questo è chiamato ‘manipolazione della valuta’. Fed stai ascoltando?”, ha twittato Trump che, secondo gli analisti di Schroders potrebbe aver calcolato male la reazione di Pechino all’inasprimento dei dazi.

“La Cina ha una lunga tradizione” negli interventi “protratti e su larga scala sul mercato dei cambi. Negli ultimi giorni ha preso misure concrete per svalutare la sua moneta” afferma il Tesoro americano. In seguito alla designazione al Tesoro Steven Mnuchin si impegna a lavorare con il Fmi per cercare di eliminare i vantaggi ingiusti che Pechino ha guadagnato con le sue mosse sui cambi. La presa di posizione del Tesoro americano consente a Trump di onorare la sua promessa elettorale di bollare la Cina come manipolatore di valute. Ora però resta da vedere come Pechino reagirà alla mossa del presidente americano. Alla finestra la Fed attende di capire l’evoluzione della disputa ormai non solo più commerciale: di sicuro il botta e risposta fra Washington e Pechino aumenta la pressione su Jerome Powell. Gli analisti scommettono su tagli dei tassi per un totale di mezzo punto entro la fine di ottobre, ovvero con due mesi di anticipo rispetto a quanto inizialmente previsto. Il timore della banca centrale è l’impatto che la guerra avrà sull’economia e il rischio che possa scivolare in recessione, proprio in un momento in cui le armi della Fed sono in qualche modo limitate dai tassi già bassi. Il rischio recessione è confermato dall’inversione della curva dei rendimenti fra i Treasury a tre mesi e quelli a 10 anni in territorio fortemente negativo, come mai dal 2007. L’inversione della curva ha preceduto tutte le recessioni americane negli ultimi 50 anni.

“Con la Cina e gli Usa che cercano entrambe di avere una valuta più debole, c’è adesso il timore che si scateni una guerra valutaria globale”, commenta Kei Yamazaki, gestore di Sumitomo Mitsui Ds Asset Management. “Senza dubbio la guerra valutaria globale è qui ed è la naturale estensione della guerra commerciale, che sta volgendo al peggio”, aggiunge George Boubouras, direttore di Salter Brothers Asset Management. In un clima simile già le Borse asiatiche avevano concluso molto male la loro seduta, con Hong Kong scivolata del 2,8% anche per le tensioni delle proteste. Un segnale che ha affossato prima i titoli del lusso, ma in breve le vendite si sono concentrate anche su materie prime e gruppi tecnologici. Londra così ha perso il 2,4% finale, Parigi il 2,1%, Francoforte l’1,8%, Milano ‘solo’ l’1,3%. Ovviamente in controtendenza tutti i beni rifugio, con una tenuta dei titoli di Stato e soprattutto il proseguimento della corsa dell’oro, che ha scambiato sopra i 1.460 dollari l’oncia, ai massimi dal 2013.

Altra benzina sul fuoco è venuta dalla richiesta del governo cinese alle imprese a controllo statale di sospendere le importazioni di beni agricoli dagli Stati Uniti, con la Coldiretti che denuncia come la vendetta di Pechino contro i dazi di Trump rischi di provocare uno sconvolgimento anche dei mercati agricoli, con effetti diretti sull’Europa e l’Italia. E dalla penisola viene un altro segnale, a conferma della volatilità delle Borse: nei primi sei mesi dell’anno l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale e sulle plusvalenze è scesa di 731 milioni, con un calo di oltre il 90%, a rispecchiare le performance fortemente negative dei mercati nel corso del 2018.

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