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Gli scarti agricoli diventano tessuti: il settore vale 30 mln

Dal “patto per la moda” siglato al G7 di Biarritz dai big mondiali del lusso e del fast fashion, alle startup sempre più numerose che cercano soluzioni innovative nel settore, la sostenibilità è ormai un fattore che le aziende che operano nella moda non possono più sottovalutare. Il mercato stesso lo chiede: la domanda di capi sostenibili in Italia, infatti, è cresciuta del 78% negli ultimi due anni e oggi il 55% degli utenti è disposto a pagare di più per capi ecofriendly.

Trovare nuovi sistemi di produzione, privilegiando quella che viene chiamata “economia circolare”, ovvero il riutilizzo e il riciclo delle materie prime, è l’obiettivo di “Agritessuti”, il marchio lanciato da “Donne in Campo”, l’associazione femminile di Cia-Agricoltori Italiani, per la creazione di abbigliamento partendo dagli scarti agricoli. Ortaggi, bucce, radici, foglie si trasformano in tessuti bio che potrebbero sostituire – o per lo meno affiancare – i normali processi produttivi del mondo del fashion che, come si sa, sono molto inquinanti: secondo un report delle Nazioni Unite, il settore è responsabile di circa il 10% delle emissioni di gas serra mondiali e del 20% dello spreco globale di acqua. E proprio l’ONU ha inserito nella sua Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile la promozione di nuovi sistemi di produzione che riducano l’impatto sull’ambiente (e contenere, in ultima analisi, il cambiamento climatico).

La filiera che le donne della Cia vogliono incoraggiare fattura attualmente quasi 30 milioni di euro, comprendendo circa 2 mila aziende agricole che producono lino, canapa, gelso da seta. Secondo l’associazione, qualora venisse supportato il brand Agritessuti, con il relativo riutilizzo degli scarti, il fatturato potrebbe triplicare nei prossimi tre anni, allargando il circuito anche alle imprese produttrici di piante officinali e tintorie di lavanda e camomilla, a cui si aggiungerebbero foglie dei carciofi, scorze del melograno, bucce di cipolla, residui di potatura di olivi e ciliegi, ricci di castagno. Insomma, tutto ciò che comunemente viene buttato ma che può diventare materia prima preziosa in una filiera dall’alto potenziale: “Su questi processi abbiamo il know-how, considerata la vicinanza tra le donne e la tradizione tessile, nella storia e ancora oggi – ha detto la presidente nazionale di Donne in Campo-Cia Pina Terenzi – Per questo, ribadiamo la necessità di dare vita a tavoli di filiera dedicati, al Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, a sostegno della produzione di fibre naturali, a cui andrà affiancata la creazione di impianti di trasformazione, diffusi sul territorio e in particolare nelle aree interne, per mettere a disposizione dell’industria e dell’artigianato un prodotto di qualità, certificato, tracciato e sostenibile”.

Una maglietta richiede, in media, 2.700 litri d’acqua per essere prodotta, un jeans fino a 10 mila litri, utilizzando soprattutto fibre e coloranti di sintesi. Considerato che il consumo mondiale di indumenti è destinato a crescere di oltre il 60% entro il 2030, è evidente quanto siano enormi le potenzialità di una filiera del tessile ecologicamente orientata, fino a rappresentare il 15-20% del fatturato del settore in Italia (4,2 miliardi).

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