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Ilva, Mose, Alitalia: il ricatto dell’emergenza

L’emergenza dovrebbe essere una condizione straordinaria. E’ diventata, invece, un ricatto perenne. Dall’Ilva a Venezia, con il Mose, fino all’agonia dell’Alitalia. Il nostro è un Paese che si muove solo in condizioni estreme: per riparare i danni delle catastrofi naturali e per scongiurare quelli delle catastrofi industriali. Si passa, ormai anche con disinvoltura, da un ‘gabinetto di guerra’ all’altro. Da una crisi all’altra, avendo ormai rinunciato a programmare, a pianificare, a gestire in una logica strutturale.

Le responsabilità sono di un’intera classe dirigente. Con la politica incapace ormai da troppo tempo di assicurare quella stabilità che serve a costruire, senza continuare a mettere toppe. E con imprenditori e manager incapaci di guardare più lontano di un tornaconto immediato.

Eclatante il caso delle grandi infrastrutture. Per il Mose si sono spesi miliardi di euro, si sono bruciati milioni in tangenti, si è perso tempo, e il risultato è la devastazione di queste ore a Venezia. Le dighe che dovrebbero isolare la laguna dal Mar Adriatico in caso di necessità saranno pronte, forse, nel 2021. Ovvero, diciotto anni dopo l’avvio dei lavori nel 2003. Inutile ogni paragone con i tempi e le modalità di realizzazione delle infrastrutture chiave negli altri Paesi avanzati. Utile, invece, ricordare che la corruzione, il malaffare, le lentezza della burocrazia pesano su qualsiasi progetto, più o meno ambizioso, di messa in sicurezza del territorio.

Poi, c’è la questione industriale. Anche su questo fronte, la politica ha le sue responsabilità. Veti incrociati, assenza di pianificazione, eccesso di pressione fiscale, nessuna certezza nelle regole contribuiscono a rendere difficile il contesto in cui operano grandi e piccole imprese.

Ovviamente, ci sono anche le responsabilità delle stesse imprese. Con vertici aziendali (almeno quelli che si sono succeduti nei due dossier Ilva e Alitalia) incapaci di ragionare con una prospettiva di medio-lungo termine. Si dibatte spesso, ormai, del valore sociale dell’impresa e della necessità di affiancare alla logica del profitto quella della crescita sostenibile. Nel caso di Ilva, e anche di Alitalia, prevalgono però da anni le logiche di brevissimo termine, che finiscono per diventare ‘conti della serva’. ArcelorMittal vuole dimezzare i dipendenti oppure chiudere in fretta l’acciaieria di Taranto per portare altrove i propri sforzi produttivi. Le proprietà, e i management, che si sono succeduti alla guida della compagnia aerea, da ultima Etihad, hanno privilegiato i tagli e la contabilità sugli esuberi piuttosto che i piani di rilancio.

Sintetizzando, la mancanza di garanzie nel contesto (che dovrebbero essere assicurate dalla politica) costituiscono un alibi per chi preferisce concepire l’impresa solo come un saldo tra entrate e uscite. In mezzo, dovrebbero esserci gli investimenti e le strategie industriali. Senza, non c’è speranza né per l’Ilva né per l’Alitalia. E neanche per tutte le infrastrutture che hanno bisogno di un dialogo sano tra la mano pubblica e quella privata.

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