Deve essere una precisa scelta di comunicazione. La prima volta poteva essere una difesa istintiva in un momento di difficoltà, la seconda un momento di stanchezza, la terza è evidentemente una strategia. Il premier Giuseppe Conte, quando non sa cosa rispondere ai giornalisti, ha imparato a replicare con una frase tanto inutile quanto infantile: “ci provi lei e vediamo cosa sa fare”, sintetizzando.
È successo a Bergamo, settimane fa, quando gli è stato chiesto del ritardo nella chiusura di Alzano e Nembro, i due comuni diventati epicentro dell’epidemia. È successo ancora ieri sera, a Palazzo Chigi, quando il collega di Rds Alberto Ciapparoni gli ha chiesto dell’operato del commissario Domenico Arcuri e del ritardo nell’approvvigionamento di mascherine al prezzo calmierato.
Evidentemente, Conte e Rocco Casalino, il suo portavoce, hanno condiviso una linea precisa: deve passare il messaggio che chi ha la responsabilità di decidere non può essere messo in discussione da chi quella responsabilità non ce l’ha. Ora, si potrebbe arrivare lontano nell’analizzare quanto anti-democratica e pericolosa sia una concezione del genere. Ci fermiamo molto prima. Facendo notare che il ruolo dei giornalisti è esattamente quello interpretato dai colleghi nelle occasioni in cui Conte ha risposto come spesso si fa negli asili, o al massimo alle scuole elementari.
I giornalisti devono fare domande e le domande che servono sono quelle che si riferiscono a temi controversi, alle criticità, ai presunti errori. Il problema non possono mai essere le domande. Il problema restano le risposte. Soprattutto quando sono il prodotto di una pessima strategia di comunicazione.
Non solo perché irrispettose del lavoro di chi pone le domande. Ma anche perché nella responsabilità di chi decide rientra anche l’obbligo di spiegare le proprie decisioni. Non solo al giornalista di turno ma soprattutto agli italiani che subiscono o beneficiano di quelle decisioni.
