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La battaglia per lo stress da lavoro

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I lavoratori di Facebook, negli Usa, hanno ottenuto indennizzi per 50 mln di dollari. In Italia, è tutto più difficile: le richieste vanno all’Inail e la sindrome da stress non è ancora una malattia professionale. La versione completa di questo articolo, a firma di Alberto Sisto, è disponibile sul numero di Fortune Italia di settembre 2020.

 

 

Violenza, in foto e scritta, nudi, pedopornografia, aggressività verbale in dosi tali da far fare indigestione e togliere ogni appetito anche ad uno come Alex, il druido protagonista del film Arancia Meccanica. Tanta, troppa da non poterne più. Per questo, circa un migliaio di dipendenti di Facebook, dei 15.000 che in tutto il mondo si dedicano alla ripulitura delle pagine social da ogni genere di nefandezza, nel 2018 hanno fatto una causa collettiva dopo aver accusato, a seconda dei casi e con diversa intensità, depressione, disturbi da shock postraumatico, ansia e insonnia. Dopo due anni di resistenza il colosso di Mountain View, all’inizio di maggio, ha capitolato. Ha firmato un accordo da 50 mln di dollari per coprire gli indennizzi ai singoli revisori e introdurre dei rimedi per lenire lo stress da lavoro per questi monatti del web.

 

 

Un tentativo simile verrà a breve fatto da lavoratori delle Poste contro l’Inail, l’Istituto pubblico che in Italia svolge il compito di assicurazione per il lavoro, pagando gli infortuni e le malattie professionali. Postini, sportellisti e promotori di Poste italiane sono sul piede di guerra con l’obiettivo di vedersi riconosciuta come malattia professionale lo stress da lavoro collegato. A spingere i dipendenti sulla strada del ricorso è stato l’Inca, il patronato della Cgil, dopo aver condotto una ricerca insieme alla Fondazione Di Vittorio con interviste controfirmate da circa 1.200 degli 8.000 promotori finanziari, a cui la società non ha voluto prendere parte. Poste non ha voluto commentare con Fortune Italia.

 

 

Dai questionari è emerso un diffuso malessere fra i dipendenti “fatto di ansia, pressioni gerarchiche per il raggiungimento degli obiettivi, impossibilità a gestire il proprio lavoro, finanche nelle pause, ma anche violenza, soprattutto verbale ma in 12 casi anche fisica, che ha colpito il campione fatto di lavoratori a tempo indeterminato, in gran parte donne e con una lunga carriera lavorativa sulle spalle. Ma, soprattutto, ha colpito Fabio Manca, uno dei ricercatori che ha condotto lo studio, che denuncia il ricorso “costante e ripetuto all’assunzione di ansiolitici, antidepressivi e sonniferi in percentuali più alte che nel resto del Paese: un 18,6% medio contro il 12,6% delle donne e il 7,8% per gli uomini registrati a livello nazionale”. Un indizio più che una prova, forse, che ha fatto scattare l’iniziativa dell’Inca, l’Ente di emanazione sindacale che fornisce assistenza ai lavoratori nella difesa dei loro diritti in tema di previdenza e salute.

 

 

La versione completa di questo articolo, a firma di Alberto Sisto, è disponibile sul numero di Fortune Italia di settembre 2020. Ci si può abbonare al magazine mensile di Fortune Italia a questo link: potrete scegliere tra la versione cartacea, quella digitale oppure entrambe. Qui invece si possono acquistare i singoli numeri della rivista in versione digitale.

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