Sono passati quasi 8 mesi dal primo lockdown imposto per fronteggiare il Coronavirus. Ma è come se fossimo costretti a riavvolgere il nastro, a cancellarli per tornare a inizio registrazione. Un brusco rewind, come quelli rumorosi e faticosi che si sentivano con le cassette di una volta, le musicassette degli anni Ottanta.
I primi 4 mesi sono stati scanditi da un succedersi di fasi fisiologiche nella gestione di un fenomeno avverso imprevedibile: la comprensione, difficile, di quello che sta accadendo; la reazione, con le misure di contenimento del rischio; l’uscita dall’emergenza; la ripresa e la ricostruzione.
Poi è arrivata l’estate. C’è una data simbolica che aiuta a ricordare il passaggio dalla gestione della crisi sanitaria all’illusione di esserne definitivamente fuori: il 13 giugno, quando vanno in scena a Villa Pamphili gli Stati generali dell’economia. Dell’inutilità e dell’uso propagandistico dell’occasione, abbiamo scritto più volte. Ma il punto è un altro. Tutti, dal governo in giù, abbiamo iniziato a guardare avanti, a quello che sarebbe dovuto diventare il mondo senza Coronavirus. Una prospettiva giusta, che descrive il desiderio individuale e collettivo di voltare pagina.
Proprio in quei giorni, e poi nei mesi successivi, prendeva forma però la principale responsabilità dell’intera classe dirigente. Si è fermata la macchina che avrebbe dovuto preparare e prevenire gli effetti, potenzialmente devastanti, della seconda ondata dell’epidemia di Coronavirus che stiamo vivendo. Non si sono fatte cose essenziali: potenziare il sistema sanitario, rendere facile la diagnosi del Covid, costruire un sistema di tracciamento dei contagi efficiente, pianificare una gestione logica degli snodi più sensibili, le scuole e i trasporti.
Invece, oggi le terapie intensive non bastano, il sistema dei tamponi è già collassato, si è già rinunciato a tracciare i movimenti dell’epidemia. Le scuole in parte resistono ma soffrono carenze strutturali, i trasporti locali sono una delle principali fonti di contagio. L’unico passo avanti, per fortuna, riguarda gli aspetti clinici, con una maggiore conoscenza del virus e una migliore capacità di curarlo.
In una sintesi estrema, per tentare di arginare l’epidemia, ci resta l’unica arma di difesa che siamo capaci di usare: la chiusura del Paese. Il semi-lockdown che stiamo sperimentando è il tentativo estremo di salvare lavoro e scuola. Ma è già presumibile che possa non essere sufficiente e che sia inevitabile tornare al lockdown totale.
È come se 8 mesi fossero passati senza lasciare altra traccia che i morti e le macerie economiche e sociali che stiamo vedendo oggi. Un brusco rewind, di cui portano inevitabilmente il peso della responsabilità le Istituzioni che potevano impiegare diversamente il tempo: governo, regioni, enti locali.