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Google nel mirino Antitrust per la pubblicità online

Settanta, ottantacinque e novanta. Non sono le misure un po’ sballate di una pin up dei giorni nostri. Ma la forza di mercato che Google ha raggiunto nei vari segmenti del mercato della pubblicità on-line in Italia, assicurandosi la gran parte dei 3,332 miliardi di fatturato complessivo del settore nel 2019. A prendere le misure al colosso americano è stata l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato. L’antitrust ha utilizzato le proprie informazioni e studiato per un anno e mezzo la segnalazione di un folto gruppo di concorrenti e clienti presenti in Italia e ha poi deciso di aprire un’istruttoria per un presunto abuso di posizione dominante da parte del gigante Californiano nel mercato della pubblicità per monitor. Se Google non sarà assolta, rischia una sanzione milionaria, visto che per questo tipo di violazioni la legge antitrust prevede multe in funzione del fatturato di riferimento, ma spesso impone anche obblighi aggiuntivi, come la rinuncia ai comportamenti contestati.

 

La Iab, che raggruppa circa 120 società editrici, concessionarie pubblicitarie come la Manzoni, agenzie come Havas e i grandi clienti di pubblicità, come Enel, Fastweb e Coca Cola, si era lamentata per due decisioni di Google, che avrebbero alterato i rapporti di forza sul mercato. Dapprima perché la società americana, dal 2015, aveva deciso di riservarsi la raccolta pubblicitaria per YouTube, il portale della condivisione dei video, di sua proprietà. Poi perché Alphabet, questo il nome della capogruppo proprietaria di Google, dal 2018 avrebbe tolto ai concorrenti altre due opzioni, essenziali, per mettere a punto una campagna pubblicitaria on line efficace e a costi ragionevoli.

 

Prima della primavera del 2018, ricostruisce l’Autorità riportando le lamentele della Iab, “Google forniva agli inserzionisti e agli altri operatori del mercato del display advertising le chiavi di decriptazione dell’ID dei suoi utenti”. In pratica, fino a quel momento, Google e i soci Iab si mettevano reciprocamente a disposizione le informazioni sugli utenti della rete consentendo di associare ad un’identità precisa con tutte le sue informazioni (età, sesso, luogo di residenza e molto altro) alle sue abitudini di navigazione, al suo profilo. Questo rendeva possibile di indirizzare nel migliore dei modi e ai costi più accessibili una campagna pubblicitaria per il web. Poi un giorno, Google, ha deciso di chiudere la porta.

Per capire le conseguenze sul mercato dell’advertising di queste due novità introdotte da Google, l’Antitrust è partita dalla ricostruzione dell’attività pubblicitaria sulla rete che si è conquistata sempre maggiori spazi anche grazie all’attivismo del gigante californiano.

 

Di fatto, raccontano gli uomini dell’Antitrust, oggi la compravendita di spazi e banner è un mercato elettronico totalmente automatizzato e che funziona con tempi microscopici vista la necessità di far arrivare il messaggio all’utente praticamente in tempo reale. Quando un navigante usa un motore di ricerca il sistema pubblicitario deve essere in grado di associargli subito dei banner che siano a tema. Così deve essere in grado di campionare gli utenti per interessi, età o gusti in modo da non distribuire i banner a pioggia. Per fare questo sono state realizzate piattaforme che funzionano come i mercati finanziari.

 

Come in borsa, c’è è una sorta di asta continua a cui partecipano i venditori di spazi, Google in primis e i gestori di portali, informativi e non. Poi ci sono inserzionisti, in proprio o attraverso dei broker, le agenzie. Tutti piazzano i loro ordini di vendita e acquisto di banner, video pubblicitari attraverso sistemi che garantiscono la possibilità di selezionare molte opzioni. Come i broker di borsa che possono contare su serie storiche di andamenti di società e dei loro titoli, con analisi per comparto, settore e singola azione, ma anche software previsivi e sistemi di definizione e controllo degli ordini. Così gli specialisti pubblicitari fino a qualche anno fa potevano contare sull’immenso database di utenti del web messo insieme da loro ma anche e soprattutto dal mondo Google che, come rileva l’Antitrust, va molto oltre al motore di ricerca.

 

Oltre che con Google, che raccoglie l’86,6% delle ricerche fatte in rete in Italia, Alphabet può conoscere le abitudini dei propri clienti attraverso il sistema Android, presente nel 75% dei cellulari e tablet in circolazione, e tutte le sue applicazioni che centralizzano le informazioni che arrivano dalle applicazioni che funzionano come una sorta di sensori: Gmail, Street View, Google DoubleClick e Google AdWords, Google Chrome, Google Wallet, Google Play. E ancora, YouTube, Google Docs e Google Drive, Google Earth o Google Calendar, Google Dashboard, ma anche Google Analytics e altri. Tutti software che alimentano i profili degli utenti che ora Google ha deciso di tenere per sé.

 

Togliendo ai concorrenti l’accesso ai codici per l’identificazione dei potenziali utenti finali, è come se Google li avesse rimandati tutti in sala contrattazioni, alle grida, per di più facendoli lavorare con il solo taccuino. Mentre il colosso del web ha continuato a fare affari utilizzando le più potenti attrezzature hardware e i più sofisticati strumenti di calcolo e potendo contare, oltretutto, sull’immensa mole di dati che si è fatta regalare dai propri utenti a sua sola e completa disposizione.

 

In prima battuta Google si è difesa sostenendo che “i cambiamenti oggetto dell’indagine sono in parte misure per proteggere la privacy delle persone e rispondere ai requisiti del GDPR”, l’acronimo che identifica il Regolamento generale sulla protezione dei dati e la legislazione europea a tutela della riservatezza delle persone. La società si è anche detta disponibile “a lavorare in modo costruttivo con le autorità italiane su questi aspetti importanti, in modo che tutti possano ottenere il massimo dall’uso di Internet”. Che nel frattempo ovviamente ha continuato ad utilizzare al meglio.

 

Come ha rilevato l’Autorità, il colosso di Montain View ha rivestito e riveste ancora tutti i ruoli in partita: Alphabet, infatti, è editore con i suoi portali Google e YouTube, vende la pubblicità per sé e per gli altri, gestisce le piattaforme per gli ordini e i server che indirizzano la pubblicità. Una situazione che l’ha portata ad avere un assoluto predominio. L’Antitrust conclude rilevando che “la quota di mercato detenuta nel segmento publisher ad server (oltre il 90%), dimostra che la maggior parte degli annunci non può essere collocata sui siti degli editori senza l’intermediazione di Google”. Di qui, l’apertura dell’indagine che forse regalerà le sorprese maggiori disvelando la capacità di penetrazione raggiunte dai sofisticatissimi sistemi di profilazione in funzione sul web.

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