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Direttiva Ue sui salari minimi, Di Maio: una battaglia di giustizia sociale

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“E’ una battaglia di giustizia sociale che reca vantaggi concorrenziali anche alle nostre aziende e contrasta la povertà, innescando un trend benefico per l’intera economia”. Il numero uno della Farnesina Luigi di Maio difende a spada tratta, in un incontro organizzato in remoto dall’ufficio italiano dell’Europarlamento, la prima iniziativa della Commissione Ue in materia di diritti sociali e condizioni d’impiego: la proposta di Direttiva sul salario minimo, tuttora al centro di un complesso negoziato tra paesi membri.

Il webinair – trasmesso live sulla pagina Facebook del Parlamento europeo in Italia – ha visto intervenire con il ministro degli esteri, a nome del governo, i rappresentanti delle istituzioni Ue a Roma, i parlamentari delle commissioni competenti, gli esponenti del Sindacato e delle associazioni. Oltre una decina di panelist per un confronto a tutto campo su un testo che in questi mesi ha riacceso i riflettori in Europa sull’importanza dei temi di equità sociale e di qualità del lavoro, in concomitanza con lo sforzo collettivo per superare la crisi provocata dalla pandemia e rilanciare la crescita.

Posizioni divergenti

La misura proposta da Bruxelles per uniformare nei 27 Paesi Ue il compenso minimo legale e combattere il cosiddetto “dumping salariale” (n.d.r. qualificato come elemento distorsivo della concorrenza) trova tuttavia diversi oppositori e non solo in Italia, uno dei sei Paesi membri in cui il salario minimo non è imposto per legge ma protetto esclusivamente nell’ambito della contrattazione collettiva. Le organizzazioni sindacali, da una parte, temono un ulteriore indebolimento del loro ruolo nelle contrattazioni. Dall’altra le imprese, specie quelle che hanno delocalizzato, non vedono di buon occhio un intervento a gambe tese di Bruxelles in un ambito che avrebbe conseguenze dirette sulle loro realtà. E anche i paesi dell’est dell’Ue stanno facendo muro contro un’ipotesi che introdurrebbe per legge sensibili aumenti retributivi rendendo di fatto meno “attraente” per gli investitori stranieri i loro mercati del lavoro. Posizioni per certi versi inconciliabili che stanno ritardando il via libera alla Direttiva, inizialmente previsto all’inizio dell’estate.

Il M5S spinge per il sì

Proprio il M5S è stato da sempre tra i più forti sostenitori del provvedimento che peraltro era stato incluso anche nel loro programma elettorale alle scorse elezioni europee. E quindi Di Maio, in linea con le precedenti prese di posizione, ha ribadito con forza che “un intervento a livello europeo che renda omogenee le condizioni di salario minimo in tutta l’Unione non è più procrastinabile”. “Ritengo che sia vantaggioso anche per le nostre aziende, ha aggiunto, perché l’aumento dei salari garantirà più potere d’acquisto a milioni di lavoratori sottopagati e attiverà un trend benefico per l’intera economia, un investimento che si ripagherà in breve tempo”, ha spiegato ricordando l’ultimo caso eclatante di dumping salariale che ha portato il colosso Pfizer a trasferire parte della propria attività in Romania, riducendo l’organico della filiale belga.

Le perplessità di Confindustria

Confindustria, rappresentata da Stefania Rossi, dirigente Area lavoro, welfare e capitale umano, ha invece constato come l’Ue stia tentando d’imporre un modello in un contesto che non è ancora maturo, specie nei paesi dell’est: “la direttiva, ha affermato, per noi presenta diverse difficoltà interpretative ed introduce elementi di arretramento rispetto il nostro principio della contrattazione collettiva”.

Il nodo della contrattazione

Le parti sindacali hanno invece sottolineato l’importanza di questa direttiva anche per l’Italia se sarà in grado di far fare un salto di qualità alle contrattazioni collettive. Susanna Camusso (Cgil), in particolare, ha chiesto una migliore definizione nel testo delle norme di rappresentatività delle parti sociali allo scopo di fermare la corsa ai ribassi salariali, tipiche di sistemi produttivi che sono sempre più frazionati e che affidano le contrattazioni a soggetti non rappresentativi.

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