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Il lavoro cambia, cambia il welfare

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La nuova organizzazione, a partire dallo smart working, impone una nuova attenzione al benessere. La versione originale di questo articolo fa parte del Dossier Welfare 2021, allegato del numero di Fortune Italia di novembre 2021. Il dossier può essere consultato online a questo indirizzo.

CAMBIA IL LAVORO, cambia il welfare. È un dato di fatto. L’impatto prodotto dalla pandemia sulle organizzazioni del lavoro è stato poderoso e ancora lungi dall’aver prodotto tutti gli effetti attesi.

Giovanni Scansani, consulente aziendale e osservatore da anni del welfare aziendale prova a darne una sintesi: “Il welfare aziendale attraversa una fase caratterizzata da effetti che sono stati accelerati dalla pandemia, ma che erano in atto da tempo: le forti spinte alla riorganizzazione del lavoro e dei processi produttivi, incentrati sull’evoluzione tecnologica, si presentano come sempre più associate alla ricerca di nuovi e in parte inediti equilibri tra aspirazioni professionali e necessità della vita. In questo quadro trasformativo il welfare aziendale ha avuto e avrà una funzione di sostegno al cambiamento che, per essere realmente tale, dev’essere incentrata sul ruolo e lo sviluppo delle capacità delle persone. Ecco perché le prassi di welfare aziendale hanno maggiori capacità di generare positivi effetti, anche sul piano organizzativo, laddove questo sia caratterizzato da contesti partecipativi che presuppongono il coinvolgimento delle persone almeno nell’assunzione di decisioni e scelte di carattere operativo”.

Da un anno e mezzo siamo stati trascinati in infinite discussioni – filosofiche prima che organizzative – sulle magnifiche sorti e progressive del presunto smart working.

Chi lo mitizzava, chi lo denunciava come finzione: remote working, house working; non lavoro agile o smart, che dir si voglia. E si sono creati – come piace tanto agli italiani – almeno due partiti: i tifosi dello smart working sempre e ovunque; i realistici osservatori della necessità di un ritorno in ufficio. Due verità.

Che il sedicente smart working sia cosa da white collar, magari di imprese medio-grandi, è pacifico. Che molte Pmi tradizionali abbiano bisogno di recuperare lavoro in presenza (con esplicita richiesta dei propri dipendenti, stressati dal lavoro da remoto, praticato in casa tra figli e metri quadri tiranni) è altrettanto scontato.

Altrettanto certo è che si siano diffusi contratti di lavoro aziendale dove il 3 per 2 non è un’offerta promozionale ma una ripartizione settimanale del lavoro tra casa e ufficio (a volte anche 4 e 1).

E tra due anni si prevede che solo il 42% dei dipendenti lavorerà in azienda, circa la metà del periodo pre-Covid (nel 2019 era l’82%) ma in aumento rispetto alla situazione attuale, dove a recarsi sul posto di lavoro è appena il 32%.

Lo rivela la ricerca “Benefit Trends Survey 2021- 2022” condotta da Willis Towers Watson su un campione di aziende attive nel nostro Paese che rappresentano circa 155.000 lavoratori.

La modalità ibrida, ovvero sia da remoto sia in presenza, tra due anni resterà comunque più diffusa di quella completamente a distanza, sebbene quest’ultima abbia registrato, l’anno scorso, una maggiore crescita proporzionale. Di certo questa trasformazione organizzativa impatterà e non poco sulla gestione degli spazi: l’ufficio non sarà più lo stesso. Resterà luogo di incontro e di riunione, ma non per forza “luogo di lavoro”.

Questo produrrà – sta producendo – novità sul layout, sull’architettura, sulla gestione (la scrivania si prenoterà) dell’ufficio. Anche questo è “nuovo welfare”. Così come la fruizione dei pasti: mensa aziendale? Sempre meno. Food delivery? Sempre di più, verso l’ufficio, la casa o i luoghi di coworking.

 

La versione originale di questo articolo fa parte del Dossier Welfare 2021, allegato del numero di Fortune Italia di novembre 2021. Il dossier può essere consultato online a questo indirizzo.

 

 

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