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Il welfare integrato di un Paese diviso, il paradosso italiano

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Il paradosso del welfare in Italia, un Paese che insegue l’inclusione ma che non riesce a integrarsi al proprio interno. La versione originale di questo articolo fa parte del Dossier Welfare 2021, allegato del numero di Fortune Italia di novembre 2021. Il dossier può essere consultato online a questo indirizzo.

IL WELFARE non è uguale per tutti. L’universalismo è un obiettivo irrinunciabile, ma la realtà deve essere conosciuta, per provare a modificarla. Da un paio d’anni il think tank promosso da Unipol e The European House Ambrosetti, ‘Welfare Italia’, ha elaborato un originale ‘Welfare Italia Index’. A fine novembre verrà diffuso il nuovo rapporto annuale, che confermerà purtroppo la forte differenza di efficacia dei sistemi di welfare nelle Regioni italiane.

Il Welfare Italia Index evidenzia una elevata eterogeneità territoriale. In una scala da uno a cento l’indice di welfare vale 83,4 punti nella Provincia autonoma di Trento e 55,2 punti in Calabria. In questa forbice clamorosa, che conferma l’Italia divisa in due (e forse anche più) parti, sono quantificate le politiche sociali, la sanità, la previdenza, l’educazione e la formazione.

Una fotografia crudele, che fissa le differenze di un Paese che insegue l’inclusione, ma che non riesce ancora a integrarsi al proprio interno. Una conferma di quanto sia importante il welfare di territorio. Una volta poteva essere solo una variante del welfare state a livello locale (fondandosi per lo più sulle prestazioni convenzionate dal pubblico, dai Comuni alle Regioni), oggi è sempre più un’evoluzione del welfare aziendale.

Sì, anche i più timidi sostenitori del welfare aziendale oggi devono fare i conti con quello che l’indagine annuale condotta da Generali Italia, ‘Welfare Index Pmi’ ha sintetizzato con la formula: “Il welfare aziendale genera impatto sociale”.

Il nuovo ruolo sociale dell’impresa – che una volta veniva etichettato con l’acronimo Csr, Corporate social responsibility – passa attraverso l’estensione dei benefici erogati ai propri collaboratori verso le famiglie e quindi verso tutta la comunità. Anche in questo caso la novità è stata più evidente durante e dopo la pandemia. Le iniziative adottate nei due anni di emergenza sanitaria danno un’idea dell’ampiezza e della qualità dello sforzo sostenuto dalle imprese sul territorio.

Il 43,8% delle aziende hanno offerto presidi di prevenzione e servizi diagnostici. È stato rilevante anche il cambiamento organizzativo del lavoro, che ha impattato sulla mobilità sociale; ma anche i processi formativi sono stati modificati a favore dei lavoratori e delle loro famiglie (alcuni costi indiretti della Dad sono diventati oggetto di una copertura di welfare aziendale).

Anche per questa nuova vocazione sociale dell’impresa, stiamo assistendo a una lenta ma progressiva integrazione dei servizi alla persona, erogati dalle imprese cooperative sociali, nel bouquet di prestazioni offerte dalle aziende e non solo dall’ente pubblico locale. Il terzo settore sta diventando protagonista di una evoluzione che contamina le imprese (e ne viene contaminato).

Il welfare sussidiato sul territorio rivela che dall’integrazione pubblico-privato si rischia di dimenticare il ruolo sempre più centrale del privato sociale, cioè le imprese sociali che dopo essere vissute per anni nell’orizzonte della Pa, oggi si avvicinano sempre più ai programmi e ai piani di welfare promossi dalle imprese profit. Il welfare integrato, sul territorio diventa tripolare: pubblico-privato-privato sociale.

La versione originale di questo articolo fa parte del Dossier Welfare 2021, allegato del numero di Fortune Italia di novembre 2021. Il dossier può essere consultato online a questo indirizzo.

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