Cerca
Close this search box.

Non è il solo salario a fare la differenza, l’analisi di Azzurra Rinaldi (Unitelma)

Non è il solo salario a fare la differenza tra uomini e donne. Azzurra Rinaldi è la direttrice della School of Gender Economics all’Università Unitelma Sapienza di Roma. Esperta di economia di genere, è membro del board della European Women Association e del Comitato Scientifico della Global Thinking Foundation. Sul campo porta avanti diversi progetti per la cooperazione internazionale, la formazione e l’empowerment femminile sia in Italia, sia in Paesi come il Libano e l’India.

Di che cosa si occupa la School of Gender Economics?
È un centro di ricerca attivato all’interno dell’Università Unitelma Sapienza, l’ateneo telematico dell’Università Sapienza. È nato con l’obiettivo di promuovere tutte quelle attività di ricerca, ma anche di divulgazione sul tema di economia di genere. Ogni anno pubblichiamo un report su una delle questioni principali inerenti a questa tematica. L’anno scorso ci siamo focalizzati sulla gestione dello smart working nel periodo successivo al lockdown. Un argomento complesso che, oltre agli aspetti positivi cela in sé alcune ombre, come quella che si possa tramutare nella tipica misura di categoria, come è avvenuto per il part-time, utilizzata per lasciare alle donne la possibilità di occuparsi anche della famiglia.

A settembre uscirà il prossimo studio, che si concentra proprio sulla cura della famiglia, un aspetto poco valorizzato nel contesto socio-economico attuale e che ha coinvolto, nella ricerca, quasi 4 mila donne. Anche questo è un dato: ci dice che le donne italiane hanno bisogno di parlare e veder vista rappresentata la loro posizione.

Cosa si intende per Gender Gap?
Noi lo ricolleghiamo sempre al Gender pay gap, alla disparità salariale. In realtà è un concetto più ampio, che abbraccia tutti quegli ambiti in cui c’è una distribuzione iniqua delle variabili basata solamente sul genere. Il gender gap si ritrova infatti non solo nella differenza di salario, ma anche nel tasso di occupazione fra donne e uomini, nelle posizioni apicali nelle aziende, private e pubbliche, e nella rappresentanza politica. Il gender gap non si manifesta solo verticalmente, ma anche orizzontalmente: sono ancora in tanti a credere che alcuni lavori siano più adatti agli uomini e altri invece alle donne.

È un fenomeno che si ritrova in tutti i Paesi, seppur in maniera diversa. Ci sono i paesi del nord Europa che sono molto avanti e il percorso, se si va a ritroso per rintracciare i primi passi in tal senso, ha preso inizio con la rappresentanza politica che ha portato a catena all’emancipazione anche lavorativa. Effettivamente questi Paesi vanno bene su tutti gli indicatori che riguardano la tematica. Ma esistono anche Paesi, come la Spagna a cui ci sentiamo più vicini, che sono molto più avanti nei diritti rispetto al contesto italiano. Un anno e mezzo fa lì è stato equiparato il congedo di paternità a quello di maternità̀. Questo comporta, di conseguenza, meno disparità sul mondo del lavoro.

È la cosiddetta childhood penalty?
Esattamente. Basti pensare che in Italia il 75% delle attività di cura dei figli è nelle mani delle donne e questo si traduce in una forte diseguaglianza sul mercato del lavoro. Nel bilancio di genere i dati Istat parlano chiaro: nel nostro Paese se sei una donna in età fertile, ovvero tra i 25 e i 49 anni e non hai figli, il tasso occupazionale è altissimo, al 73,9%. Se ne hai uno al di sotto i sei anni scende di venti punti, al 53,9% e se, nelle stesse condizioni, vivi al Sud, la percentuale crolla al 35%.

Quali sono i vantaggi che potrebbe apportare una maggiore occupazione femminile?
Una maggiore occupazione delle donne andrebbe ad aggredire due fragilità strutturali del nostro Paese. Il primo è un Pil pro capite basso, causato anche al fatto che metà della popolazione femminile non lavora. Inoltre le donne avrebbero, se lavorassero, maggiore ricchezza e di conseguenza potere contrattuale e le stesse famiglie sarebbero più ricche. In parole povere i redditi bassi potrebbero divenire redditi medi.

Questo porterebbe a innescare un processo virtuoso anche per quel che riguarda un aumento del gettito fiscale e un maggior benessere sociale. Il secondo tema tocca invece il cosiddetto inverno demografico. Noi abbiamo una natalità bassissima e nella retorica generale molte volte si ricollega al fatto che le madri non rimangono più a casa a occuparsi delle famiglie. Questo pensiero si distacca però dalla realtà economica attuale. Una famiglia monoreddito, nella maggior parte dei casi, non si può permettere di mantenere molti figli. E anche qui si guarda nuovamente anche i dati del nord Europa, dove la maggior occupazione femminile si collega a una maggiore natalità. Può sembrare controintuitivo, ma non lo è.

La Gender equality è anche il quinto obiettivo del millennio delle Nazioni Unite. Quali sarebbero le conseguenze se si riuscisse a conseguirlo?
Abbiamo molti studi su questo. Le percentuali del Pil mondiale variano in termini di proiezioni dal +6% al +9% ma c’è un dato che rimane lo stesso in tutti i report: se si aumentasse la partecipazione femminile nel mercato del lavoro e si riducesse il gender gap, noi avremmo un incremento della ricchezza e del benessere collettivo. La difficoltà è riuscire a raggiungere questa consapevolezza. Un dato positivo è che nel nostro Paese molte donne stanno andando verso questa direzione facendo impresa. Nel 2020, con tutto quello che si è passato a causa della pandemia, Unioncamere afferma che le imprese femminili hanno avuto una contrazione del solo 0,29%. Un dato sbalorditivo se si pensa alla resilienza di queste imprenditrici.

Quali sono i driver per costruire un futuro nuovo?
Le donne Ceo nel mondo sono solo il 5%. Un numero troppo esiguo per trascinare da sole le altre donne verso l’emancipazione lavorativa. Serve la collaborazione degli uomini, la comprensione di quello che potrebbe essere il potenziale da sfruttare. Vi è una letteratura corposissima che dimostra come l’integrazione femminile all’interno dei board aziendali o in posizioni di vertice porti ad un maggiore valore dell’impresa, del fatturato e dei profitti di questa. La leadership deve essere inclusiva e adattarsi a nuovi modelli più attuali. Serve poi l’educazione e la rappresentanza, se non ci sono figure da emulare in senso positivo è difficile che le bambine e i bambini lo reputino un fatto normale. E, infine, serve favorire nelle donne la cultura del chiedere, del prendere spazio, anche economicamente.

ABBIAMO UN'OFFERTA PER TE

€2 per 1 mese di Fortune

Oltre 100 articoli in anteprima di business ed economia ogni mese

Approfittane ora per ottenere in esclusiva:

Fortune è un marchio Fortune Media IP Limited usato sotto licenza.