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Come imparare a leggere i media

Secondo una indagine condotta dal Censis negli ultimi sei mesi due italiani su tre si sono trovati di fronte a notizie false su temi di grande importanza come la pandemia o la guerra russa in Ucraina. Una percentuale così alta (83%) si spiega con l’urgenza di informarsi tipica dei momenti di incertezza, quando lo spettro delle fonti si allarga. Qui internet aumenta il suo impatto fra social, influencer e le migliaia di news apparentemente aggiornate.

In un simile contesto le false notizie sono libere di volare in tutti gli ambiti, dalla politica internazionale (anche a supporto di processi sistematici di manipolazione), al meteo (titoli che sollecitano fenomeni di ansia collettiva attraverso l’uso di locuzioni allarmistiche: un caldo che non è mai solo tale, ma qualcosa di apocalittico, una pioggia che allevia caldo e siccità, ma sempre prelude a tempesta e allagamenti).

E i campi sono i più diversi: dall’economia fino alla pubblicità che di notizie evocative espresse con linguaggi estremi si è sempre servita.

Di fronte a una diffusione sempre più aggressiva delle fake proviamo tutti un senso di impotenza. La loro esuberante pubertà non sembra risentire nemmeno degli strumenti tecnologici messi in campo a contrasto dai “sultani del silicio” (così l’Economist ha chiamato i grandi brand Google, Apple, Meta). Per la sproporzione fra raggiunto e raggiungibile, fra quello che si riesce a fermare e quello che passa tranquillamente (pagina pubblicitaria di Google del 18.7.2022: “Ogni giorno Google blocca 100 milioni di fake !” Bene, ma in giro ne restano anche di più).

Per la coincidenza fra tecnica e impatto culturale, come spiegava Byung Chun Han già anni fa  (Nello Sciame, 2015): “alla capacità di analisi e visione del futuro tipici della comunicazione in presenza si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo dove discriminare oltre un certo livello è quasi impossibile usando gli stessi s5tistemi”, così le app che ci semplificano la vita dominano incontrastate, ma riducono anche la capacità  individuale di affrontare la complessità, e se non hai l’app rimani a secco di soluzioni.

Per la crescita impressionante delle diseguaglianze informative e economiche che caratterizza questo scorcio di secolo, dove per riportare a misura il dominio dei “sultani” non basta riprendere il dossier dei “robber barons” con cui alla fine del secolo XIX il governo degli Stati Uniti ridusse d’autorità il potere dei padroni del vapore di allora (ferrovie, petrolio, materie prime..) obbligando i Rockfeller a dividere la Standard Oil in 34 società affidate al mercato; o quando a inizio anni 1980 impose al peso massimo AT&T di mettere sul mercato molte sue attività  generando un congruo  numero di operatori medio-piccoli diventati poi la spina dorsale della rivoluzione telefonica e internet.

Servono sicuramente leggi migliori, tassazioni più adeguate, più attenzione ai diritti di lavoratori e utenti. La Commissione Europea ha trovato un accordo su un Codice di buone pratiche rafforzato sulla dis-informazione che sarà inserito nel “Digital Services Act” per regolamentare i contenuti illegali e la dis-informazione sulle varie piattaforme che prevede sanzioni salate contro chi lo violasse ripetutamente. Approvato e firmato da 34 organizzazioni fra cui i “sultani” Meta, Microsoft, Google, Twitter e TikTok il documento contiene 44 impegni che le aziende tecnologiche assumono per combattere la diffusione di notizie false sul web. Fra questi togliere gli incentivi economici eliminando le entrate pubblicitarie dei siti di fake news, ridurre il numero di account falsi usati per diffondere dis-informazione, fornire agli utenti strumenti migliori per riconoscerla e segnalarla.

Tuttavia, in assenza di una piena consapevolezza collettiva del problema, anche questo non basta.

Forse bisogna chiamare in servizio la vecchia e cara scuola, che si faccia carico del gigantesco compito di formare alla cittadinanza digitale anche attraverso la capacità di “leggere” i media. Perché  c’è una relazione fra la diffusione massiccia di fake news e la incapacità di identificarle o almeno comprendere di cosa si potrebbe trattare. E qui pesa parecchio la mancanza di strumenti formativi che dal livello scolare primario dovrebbero insegnarci a stare attenti.

Se oltre che a leggere e scrivere e far di conto i nostri ragazzi fossero formati anche a “leggere” le notizie, se fossero media literate, dotati di una alfabetizzazione di base per capire davvero i media, forse potrebbero e potremmo difenderci meglio.

La comprensione del funzionamento dei media (digitali e non) dovrebbe diventare materia obbligatoria, a sostegno dell’intero piano di studi, non come l’educazione civica scomparsa dal curriculum o altre formazioni di base (sanitaria, finanziaria, fiscale) del tutto assenti che rappresenterebbero l’ossatura di una alfabetizzazione civile.

La ricerca e la verifica delle fonti si può imparare, così come abbiamo imparato che il senso e l’attendibilità di una notizia dipendono dalla posizione che occupa nella pagina di un giornale o nel palinsesto di un Tg, dove c’è un ordine logico da rispettare che, se tradito, fa cattiva informazione anche senza volerlo.

In alcuni paesi i Media Studies sono parte del piano di studio. In Gran Bretagna hanno cominciato anni fa dalle medie superiori per scendere progressivamente alle inferiori e poi alla scuola primaria. E in Parlamento si è appena formato un gruppo inter-partitico che chiede al governo di mettere a punto una nuova legge (Media Literacy Education Bill) che tenga conto della esperienza accumulata in tanti anni di pratica. Sulla sua reale efficacia deterrente nessuno si illude. Non basta insegnare una materia perché questa si trasformi immediatamente in competenza operativa. E nel campo della comunicazione in particolare non esistono leggi risolutive.

Anche perché per risolvere serve tempo, quella consapevolezza che spesso manca e soprattutto una buona pratica dei media. Tuttavia una legge può indicare un percorso. Non solo quindi diffondere ulteriormente i media studies, ma formare all’eccellenza nell’uso dei media con tre raccomandazioni essenziali: a) inserire elementi di alfabetizzazione mediatica nei corsi di formazione e aggiornamento per tutti gli insegnanti; b) collegare in ogni scuola media literacy e misure di sicurezza per la navigazione online, aggiornando in questo senso il sistema ispettivo delle scuole per fissare obbiettivi e standard anche promuovendo la collaborazione fra la Autorità Garante della Comunicazione (Ofcom) e quella per la educazione (Ofsted); c) verificare che tutte le istituzioni educative (oltre alle scuole anche le biblioteche) abbiano una specifica politica per la alfabetizzazione mediatica che preveda la disponibilità di fondi specifici per il supporto dei genitori, delle famiglie, dei media e della società nel suo complesso;  mettere a punto un pacchetto di strumenti per la alfabetizzazione mediatica immediatamente disponibili a tutte le istituzioni educative.

Un tool kit, una borsa utensili come la chiama il pragmatismo anglosassone. Perché in giro per il mondo ci sono utensili di questo tipo prodotti e gestiti da televisioni pubbliche (Pbs americana e Bbc inglese), dall’Unesco, dal terzo settore e da piattaforme digitali indipendenti che lavorando su pensiero critico, resilienza e impegno civico possono fornire un quadro di riferimento su come analizzare le notizie, interrogare i media e l’informazione in genere. Ponendosi anche il problema di come rendere migliore la pratica dei media perché la dis-informazione non viene solo dalla volontà di qualche ente ma anche della imperizia di chi dovrebbe gestirla.

Cosa serve in fondo? Serve imparare a fare informazione, come gli Student Reporting Labs della Tv pubblica americana PBS, laboratori all’incrocio fra Media Literacy e azione di comunità che insegnano a studenti e docenti a costruire video di impatto su notizie relative a temi importanti per la loro comunità di riferimento e che vengono diffusi da reti locali e dal TG della rete nazionale Pbs. O come il Bbc Young Reporter che opera in partnership con scuole, università, organizzazioni giovanili e soggetti del terzo settore, offrendo tutte le risorse che servono a insegnare le competenze di base per creare informazione e comprendere i media in un contesto di discussione collettiva sulle scelte da fare e i relativi meccanismi decisionali.

E per combattere le notizie false, la cattiva informazione e la dis-informazione serve un monitoraggio attendibile che identifichi immediatamente chi diffonde e rilancia notizie non attendibili. Come il sito NewsGuard, dove un team di analisti 24×7 assegna un bollino rosso o uno verde a più di duemila siti, pubblicando brevi schede sintetiche esplicative, un approccio che aiuta gli studenti a fare fact checking e analisi delle fonti. O una guida rapida e accurata alla verifica di una informazione come IJ Net che indica come procedere passo dopo passo. Ma anche insegnare a porre le domande sui punti critici fin dalla primaria come fa NewsWise, un modulo formativo di tre settimane che insegna come porre le domande su tre temi: capire le notizie, navigare in modo critico intorno alle notizie, come dare le notizie. Servono altre risorse formative come quelle del National Literacy Trust a disposizione di docenti, genitori, biblioteche per aiutarli a fornire le competenze alfabetiche necessarie a vivere nel mondo digitale.

O Media Lens che mette a confronto la versione di un evento fornita dai media con fatti e opinioni credibili di giornalisti, accademici e scienziati, per non fermarsi alla prima lettura ma andare più a fondo evitando il pregiudizio di conferma tipico della ricerca di informazioni su internet. O ancora il manuale dell’Unesco Fight Fake News che esplora la natura stessa del giornalismo, o le migliaia di esempi di propaganda e verità contraffatta messi sul web da piattaforme, come Mind Over Media, dove gli utenti possono caricare esempi tratti dalla loro vita quotidiana, esaminarli e discuterli con altri, assegnando un punteggio al loro impatto potenziale.

Gli esempi non mancano anche in Italia Il Post o l’Italian Digital Media Observatory. Tuttavia nel nostro Paese purtroppo la materia Media Studies non appartiene in alcun modo al curriculum scolastico, né i media pubblici come Rai se ne sono mai occupati in maniera proattiva. Fa ben sperare il fatto che il sistema delle Biblioteche pubbliche della città di Milano ha recentemente firmato un accordo per l’utilizzo di NewsGuard.  Yes we can… si può fare.

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