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Bisogna studiare i mercati artistici e culturali per capire il futuro dell’economia

Il crescente peso della creatività è conclamato. Ma i numeri degli studi che analizzano il settore vanno presi con le pinze

Non ho intenzione di partecipare allo stucchevole dibattito incentrato sull’annoso quesito “con la Cultura si mangia”? Ho resistito per 35 anni alla tentazione di fornire in proposito la mia inutile opinione e non credo sia giunto il momento di capitolare più o meno onorevolmente. In tal senso l’Economia della cultura, disciplina che frequento scientificamente e professionalmente da qualche decennio, dovrebbe fornire risposte adeguate al dilemma sopra descritto, anche se sino a oggi non si è espressa in termini definitivi, pur avendo da poco celebrato il mezzo secolo di vita (nel 1973 William Hendon costituì l’ACEI, Association for Cultural Economics International, e nel 1977 venne fondato il Journal of Cultural Economics), dopo aver figliato numerosi ambiti di specializzazione, che si occupano di tematiche sempre più eccentriche, ma cionondimeno utili.

Le ragioni di questo prolifico successo sono molteplici: le discipline economiche hanno riconosciuto – dopo decenni di silenzi e omissioni – la rilevanza assunta nelle società e nelle economie post-moderne e post-industriali dai beni simbolici, culturali e immateriali, il ruolo esercitato dall’arte e dalla cultura nei processi di diffusione dell’innovazione e nella formazione del capitale umano, il crescente peso economico della creatività (giunto ormai a livelli mistificatori) e la centralità dei consumi ostentativi e dei beni di lusso, motivando l’interesse per un campo di studi e di ricerche rimasto per lungo tempo ai margini delle preferenze disciplinari. In tal senso, se in termini di Pil prodotto il settore artistico-culturale latamente inteso ottiene risultati dignitosi ma non trascendentali (i 67,8 mld di dollari fatturati dal mercato dell’arte globale nel 2022 equivalgono a poco più della metà dei 123,6 del petfood mondiale, senza che paia irriverente l’accostamento tra una Campbell’s Soup di Andy Warhol e una scatoletta di salmone selvaggio dell’Alaska), in termini di competenze produttive e dinamiche di consumo esercita una rilevante funzione anticipatrice.

La fine della produzione di massa e l’avvento della mass customization hanno infatti comportato una rivalutazione delle caratteristiche tipiche dei beni e dei servizi che in passato erano prodotti, distribuiti e consumati nei mercati artistici e culturali: le proprietà estetiche rivaleggiano con le prestazioni, i consumi costruiscono e rivelano identità individuali e fisionomie di gruppo, la distinzione è un imperativo di massa, mentre i consumatori divengono committenti le cui logiche comportamentali rievocano quelle di collezionisti e conoscitori. Ciò è accaduto perché nel corso dell’ultimo ventennio si è compiuta la transizione dall’Economia della cultura a quella – ben più ampia – delle Cultural & creative industries and sectors (Ccis) – termine che ricomprende un mondo la cui seducente vaghezza è pericolosa.

L’European statistical system network on culture (ESSnet-Culture) vi ricomprende 10 settori:

  1. Patrimonio (musei, luoghi storici, siti archeologici, patrimonio intangibile);
  2. Archivi;
  3. Biblioteche;
  4. Libri e stampa;
  5. Arti visive (arti plastiche, fotografia, design);
  6. Arti performative (musica, danza, teatro, e altri spettacoli dal vivo);
  7. Audiovisivi e multimedia (film, radio, televisione, video, sound recording, videogame);
  8. Architettura;
  9. Pubblicità;
  10. Artigianato artistico.

 

La definizione accolta da Symbola–Unioncamere include anche la moda, l’enogastronomia e la ristorazione. Ma porre sullo stesso piano chi fa orli in 5 minuti e l’ufficio stile di Pucci equivale a confondere uno chef stellato con un kebabbaro o un Premio Natta con il bidello di una scuola media. In tal senso i numeri degli studi che negli ultimi anni hanno tessuto a livello planetario e domestico le lodi dei settori creativity driven vanno presi – nella migliore delle ipotesi – con beneficio d’inventario; a titolo d’esempio secondo la ricerca di EY del 2015 l’industria della cultura e della creatività in Italia occupava 995.000 persone, di cui 850.000 impiegate nelle attività economiche dirette  (pari al 3,8% della forza lavoro tricolore) e generava un valore economico complessivo di 46,8 mld di euro.

Diversamente l’ultimo rapporto di Fondazione Symbola ‘Io sono Cultura’ pubblicato nel 2022 – dopo la batosta Covid – asseriva che le imprese e le istituzioni pubbliche e no-profit del sistema produttivo culturale italiano generavano 88,6 mld di euro con circa 1,5 milioni di occupati (il 5,6% dell’economia nazionale, prima che ChatGpt, a dispetto dell’ukase del Garante della Privacy, ne mandi a casa parecchi), con un effetto moltiplicatore pari a 1,8 col turismo come principale beneficiario dell’effetto volano.

Chi scrive non crede che tali cifre siano attendibili, pur riconoscendo che su questo terreno – solo in apparenza interstiziale – si sta giocando una partita decisiva; pochi altri campi di studio e sperimentazione possono infatti fornire indicazioni altrettanto preziose per comprendere quale potrà essere il futuro di parecchi settori economici: lo studio ravvicinato dei mercati artistici e culturali serve per capire meglio il futuro dell’economia. Se qualcuno, 50 anni fa (Pong venne lanciato nella versione arcade da Atari nel 1972), avesse vaticinato che l’industria del gaming nel 2022 avrebbe fatturato più di 220 mld di dollari, pari al triplo del settore cinematografico, molto probabilmente sarebbe stato gentilmente accompagnato, come diceva Enzo Jannacci, al neurodeliri, dove si sarebbe trovato in felice compagnia di qualche matto che “parlava de per lü” (oggi lo facciamo tutti e nessuno trova nulla da eccepire: gli auricolari ci hanno abituato a considerare naturale il soliloquio). E molto probabilmente se qualche compassato economista, nel 1973, avesse pronosticato che a distanza di 50 anni l’uomo più ricco del mondo avrebbe basato le proprie fortune sulle alterne e volubilissime fortune della moda, si sarebbe beccato una fragorosa pernacchia degna di quella ricevuta dal candidato Antonio La Trippa.

Eppure, i 211 mld di patrimonio di Bernard Arnault sono lì a ricordarci che oggi la ricchezza non nasce più dal mattone, dall’acciaio, dalla chimica o dall’industria pesante, ma sempre più spesso dal mondo impalpabile dell’economia immateriale, di cui arte e cultura sono nobili progenitrici.

*Professore di Museum Management Università Bocconi

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