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Melania Mazzucco: Vivere di cultura? In Italia si può, ma…

La moltiplicazione dei contenitori di contenuti ha portato a un paradosso: tante opportunità ma poche risorse

Produzione di contenuti è l’espressione asettica con cui oggi ci si riferisce ai lavori intellettuali. Lo slittamento semantico non è neutrale, e testimonia a un tempo la necessità (e direi l’urgenza) di riempire contenitori per definizione vuoti e la svalutazione della competenza che occorre per farlo. Per “contenitori” intendo una pluralità di soggetti e potenziali committenti: le piattaforme digitali che veicolano all’utenza film, serie, podcast, corsi, ma anche i siti di informazione on-line, i portali e via dicendo. Quindi da un lato il campo di possibilità professionali che si apre davanti ai giovani laureati in scienze delle comunicazioni, scienze sociali, ma anche cinema, spettacolo, arte, letteratura ed editoria, è promettente. Dall’altro, le risorse che i committenti destinano ai produttori di contenuti sono invece limitate, poiché l’offerta eccede la domanda.

L’Italia non è riuscita a creare piattaforme proprie. Benché agli inizi del XX secolo la nostra industria del cinema sia stata la prima al mondo (esportavamo pellicole, modelli narrativi e divistici in ogni continente), benché abbia saputo riprendersi da ricorrenti crisi sistemiche (le guerre mondiali, il passaggio al sonoro, l’avvento della televisione), e nonostante la minore reattività di fronte all’ultima catastrofe (la pandemia), essa è sopravvissuta e ancora vitale. Professionalità, flessibilità, qualità e innovazione ci salvano. Tuttavia la produzione dipende in larga misura dai finanziamenti delle piattaforme multinazionali anglofone e – ancora – dalla televisione di Stato. Ciò genera una relazione di tipo coloniale. I format sono spesso importati e adattati, mentre di rado accade il contrario. Ma alcune caratteristiche del nostro panorama (la frammentazione delle case di produzione, l’uso di una lingua minoritaria), che hanno rappresentato un freno oggettivo e un ostacolo nei decenni precedenti, sono ormai cadute. Le piattaforme globalizzate accolgono produzioni nazionali in altre lingue e perfino dialetti, e chiedono anzi espressamente ai referenti locali prodotti ‘identitari’ (sarebbe interessante riflettere su ciò che all’estero viene considerato ‘tipicamente italiano’, ma è un altro discorso). La necessità di scrittori e scrittrici capaci di ideare e serializzare storie italiane, o adattarle per gli italiani, non è mai stata così alta, la giovinezza anagrafica dei narratori (prima, in un Paese ostile alle nuove generazioni, penalizzante), apprezzata, perché si suppone essi/e siano in sintonia con il pubblico che ne fruirà.

Scrivere per il cinema, la televisione, le serie, i documentari, i podcast, i videogame è oggi una possibilità concreta: l’accesso facilitato (scuole di scrittura, autopromozione sul web, etc) e il compenso obbligatorio. Alle nuove generazioni toccherà però il compito di difendere i loro diritti sui contenuti. La rete e le piattaforme hanno infatti quasi abolito il diritto d’autore e si è regrediti alla situazione ottocentesca. L’autore scrive un testo, lo vende, viene pagato. Dopo di che l’eventuale successo, i remake e gli spin off, non lo premiano direttamente. Non vi sono royalties per i successivi passaggi o download, e solo chi ha maturato un potere contrattuale preliminare può davvero usufruire della riuscita dell’opera.

Meno remunerati sono i lavori connessi ai portali o ai siti web. Essi hanno generato una sorta di ‘proletariato intellettuale’ di freelance, in effetti liberi e indipendenti, ma eternamente precari (sono creatori a cottimo o a contratto) e privi di tutele: sono rider della culturaveicoli di trasmissione e consegna. La “mortalità” dei committenti è alta, la durata delle imprese spesso effimera. Tuttavia queste forme immateriali di scrittura rappresentano anche una formidabile palestra di formazione e un bacino di creatori di servizi cui spesso attingono poi altri soggetti. Infatti, nonostante la digitalizzazione, le strutture tradizionali di produzione di cultura hanno resistito e si sono perfino rafforzate. Case editrici (nel 2019 l’Istat ne ha censite 1706), musei, gallerie, agenzie letterarie, enti, istituzioni, imprese, hanno sempre maggiore bisogno di “mediatori”. Editori capaci di intuire nicchie di mercato e stanare nuovi lettori (in Italia, sempre nel 2019, sono stati pubblicati 237 titoli al giorno, per un totale di 86.475, ma solo il 40% degli italiani legge almeno un libro l’anno), nonché di migliorare i testi altrui, uffici stampa che sappiano comunicarli, organizzatori di eventi, traduttori (professione essenziale in un Paese come l’Italia che doppia i film e traduce il 13,5% dei libri che pubblica, quota che nel mercato per ragazzi supera il 34%). Anche l’immenso patrimonio artistico, che abbiamo ereditato senza merito, ha bisogno di essere salvaguardato, restituito e offerto: ‘mediato’, appunto. Servono restauratori, archeologi, archivisti, paesaggisti, funzionari, bibliotecari: dotati di competenze, cultura e visione.

La domanda che mi rivolgono sempre i ragazzi nelle scuole è proprio questa: si può vivere di cultura? Rispondo di sì, ma non nel senso che forse immaginano. Gli scrittori che possano realmente vivere dei diritti d’autore delle loro opere in Italia sono davvero pochi (bisogna superare le centomila copie per raggiungere un reddito pari, che so, a quello di un primario: con la differenza che nessuno può pubblicare un libro da centomila copie ogni anno, né può sapere se il libro successivo ripeterà i numeri del precedente). Ma i libri generano un indotto. Articoli, collaborazioni, conferenze, sceneggiature per i narratori, consulenze storiche o scientifiche per i saggisti, seminari, trasmissioni radiofoniche o televisive: insomma tutto ciò che in senso lato si definisce appunto ‘produzione di contenuti’. La cultura è un bene che si scambia ma non si misura. Difficilmente si quantifica. Neanche si vede. Ma riempie la bolla vuota e fragilissima in cui siamo contenuti, sballottati, dominati: è l’aria che la solleva, il vento che la spinge.

*scrittrice

 

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