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Atlante Geopolitico, Indo-Pacifico: Cina, la Fabbrica del mondo

Il Regno di Mezzo, il Celeste Impero cinese. Nelle puntate precedenti di questa rubrica se ne è disquisito spesso. Il grande antagonista (dipende da quale punto di vista) di questa storia. Pronto a scardinare gli equilibri mondiali con una nuova arma a disposizione a cui siamo ormai tutti assuefatti, l’economia. La dea maestra che ci ha guidati dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri grazie alla diffusione capillare del mito capitalista, del profitto e dello spasmodico modello consumistico americano.

La Cina, fabbrica del mondo e seconda economia mondiale, maggiore esportatrice e importatrice di beni a livello planetario. Negli ultimi cinquant’anni ha registrato tassi di crescita medi sorprendenti: 10,4% nella sola decade tra il ’90 e gli anni 2000, 14% fino al 2007, per poi assestarsi intorno ad un 7% annuo tra il 2010 e il 2020. Inventrice della carta, della bussola, dei fuochi d’artificio, della stampa a caratteri mobili, e ahimè mi duole dirlo, anche degli spaghetti. Un paese spesso dipinto, limitatamente, come maligno, dispotico, freddo, cinico. È vero, è una dittatura a tutti gli effetti, in cui un solo partito, quello Comunista, detiene il potere e amministra tutti gli aspetti della vita dei cittadini. È vero, è un paese in cui le minoranze musulmane degli Uiguri, un’etnia turcofona che vive nel nord-ovest della Cina, sono perseguitate, deportate in campi di rieducazione senza alcun tipo di tutela legale. Vero è anche il fatto che il governo esercita un rigido controllo sulla popolazione con l’ausilio di milioni di telecamere di sorveglianza.

L’obiettivo: azzerare la criminalità. È curioso come infatti, se si sente parlare una persona di origine cinese, in Cina ci si senta molto al sicuro. Se fai qualcosa, il governo lo verrà a sapere. Un meraviglioso universo in cui il progetto del grande fratello orwelliano è riuscito a compiersi magistralmente.
Non bisogna tuttavia correre il rischio di demonizzare eccessivamente la Cina. Questo non vuole essere un articolo di polemica. Si vuole piuttosto cercare di comprendere le radici storiche che hanno forgiato la sua identità, fornendo i giusti strumenti per interpretare alcuni dei suoi comportamenti ricorrenti. Occorre interiorizzare quello che vuole essere il messaggio di Pechino al mondo, avvicinandosi al suo punto di vista per poi distanziarsene.

Riunificati i grandi regni cinesi sotto il primo augusto imperatore Qin (247 a.C.), alla sua morte si instaurò la dinastia Han, dopo un feroce scontro tra i due generali più valenti del tempo. Un dualismo tra figure di potere, questo, che rappresenta un topos ricorrente nella politica del Regno di Mezzo. Mi sovviene ora alla mente lo scontro tra Mao e il nazionalista Chiang Kai-shek, dopo il quale, nel 1949, il Dragone scelse una strada netta, aprendo le porte al Comunismo maoista. Dopo i Tang, i Song, gli Yuan, i quali incontrarono il nostro Marco Polo, i Ming, che costruirono invece la flotta più potente al mondo (ad oggi il Dragone continua ad essere la più grande potenza navale del pianeta), i Quing condussero la Cina sull’orlo del baratro fino al 1912, fallendo nel loro tentativo disperato di rendere impenetrabile il Dragone alle potenze straniere. Molto dell’atteggiamento “aggressivo” cinese può rinvenirsi nella sua storia. Da sempre chiusa al mondo, i suoi vicini erano costretti a pagare dei tributi per accedere nel suo territorio.

Solo con il dramma delle guerre dell’oppio e la furbizia europea, il Regno di Mezzo venne violentato e fu costretto ad aprire i suoi porti al commercio, in particolar modo agli inglesi ai quali venne ceduta Hong Kong, una città che ancora oggi fatica a riconoscersi sotto l’egida del partito comunista e che sta invece cercando ora di emanciparsi a suon di proteste e manifestazioni, represse continuamente dalle forze armate cinesi. Uno spazio di libertà che si riduce ogni giorno di più.

Tuttavia, lo strabiliante decollo economico cinese, dopo anni di blocco, di carestie e sangue di milioni di morti, si deve a colui che viene definito l’“architetto della Cina moderna”, Deng Xiaoping. Di pari passo con la diffusione della globalizzazione statunitense, tra il ’78 e il ’92, il Presidente Deng apre i cancelli del Regno di Mezzo, assorbendo in questo modo quell’occidentalizzazione dilagante, trasformandola al contempo in una peculiare forma di comunismo nazionale, di cui si serviranno poi gli americani per costruire la loro personale fabbrica del mondo in cui delocalizzare parti di produzione, risparmiando sui costi. Questo, come osserviamo oggi, gli si ritorcerà contro. Insomma, Deng abilita la proprietà privata, stimola gli investimenti esteri e privati all’interno, accompagnando un potenziamento dell’industria grazie ad un marcato ruolo dello Stato (e del Partito Comunista), la cui presenza nell’economia rimane in ogni caso preponderante. Vedete, il Comunismo cinese ha piantato radici così profonde e ha trovato terreno assai fertile nella cultura del paese anche grazie al confucianesimo. Il vivere in armonia con gli altri, il rispetto della gerarchia, la cura degli anziani e più in generale, una maggiore importanza data alla società e allo Stato più che all’individuo sono gli ingredienti segreti del confucianesimo riadattati in chiave moderna nella Cina contemporanea. Il paese collettivista par excellence che si scontra inevitabilmente con una visione politica totalmente individualista di stampo anglosassone.

Nella dialettica USA-Cina, il tutto può essere dunque ricondotto a una tensione antitetica tra Individuo e Stato. Lo scontro tra Washington e Pechino non riguarda la sola supremazia militare, tecnologica e commerciale che questi due paesi intendono esercitare sul mondo. Bisogna allargare gli orizzonti cognitivi. Stiamo parlando di una dicotomia tra due visioni politiche diametralmente opposte. Quando il Presidente cinese Xi Jinping presenta al mondo la sua Global Civilization Initiative sta dando un segnale ben preciso. Civilization possiamo tradurlo con Civiltà, e di questo si tratta. Un drastico cambio di rotta sul sentiero del progresso sociale e culturale umano forgiato dagli occidentali.
Furono gli USA a vincere la guerra nel ’45, e come dice un detto, la storia la scrivono i vincitori. E così è stato. La nuova impalcatura socio- economica mondiale venne costruita a partire da quegli anni. L’ONU, il Fondo Monetario internazionale (FMI), la Banca Mondiale, la stessa Unione Europea, il Gatt poi confluito nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, tutte strutture edificate in quegli anni, per lo più negli USA, affinché potesse diffondersi una visione squisitamente occidentale-statunitense. Valori definiti universali. Un termine potente, che racchiude in sé già tutto. La democrazia come forma di governo primaria, il rispetto dei diritti umani, la tutela delle libertà civili e politiche sono frutto di una precisa visione del mondo che si è affermata, fortunatamente aggiungerei, sulle altre. Ma che si è comunque imposta, sorretta da una complessa impalcatura di norme che potessero proteggerla. La struttura costruita minuziosamente dagli americani ha lentamente condizionato l’individuo della società contemporanea attraverso il suo soft power persuasivo.
Un’egemonia, quella statunitense, che registra il suo apice con la guerra del Golfo del ’91, in cui una coalizione di ben 35 paesi legittimarono l’invasione di un paese sovrano, l’Iraq. O quando la NATO, esorbitando dalla sua funzione strettamente difensiva, bombardò, con il tacito consenso di tutti gli alleati, la capitale serba, Belgrado. L’impalcatura comincia tuttavia a vacillare con l’invasione dell’Iraq e poi dell’Afghanistan nei primi anni 2000, fino alla caduta di Kabul nel 2021, anno che segna la crisi della globalizzazione e dell’egemonia americana sul mondo, aprendo la strada ad un nuovo ordine mondiale multipolare in cui la Cina può ora iniziare a giocare la sua partita.

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Secondo l’ideologia del governo cinese, il mondo è plurale. Esistono diverse visioni politiche e nessuna in particolare può prevalere arrogantemente sulle altre. Non più. Il rispetto reciproco e la non- interferenza negli affari interni di uno Stato sono il nucleo centrale del verbo cinese. Questa ossessione occidentale per la difesa dei diritti umani e della democrazia non appartiene, per natura o per cultura, a tutti i popoli, ma solo ad una fetta del mondo, quella occidentale. Ecco perché Pechino edifica, mattone dopo mattone, un complesso sistema di istituzioni e organizzazioni che possano sostituirsi alle anacronistiche e politicizzate strutture a trazione statunitense.


La Shanghai Cooperation Organization, il circolo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud-Africa), la Nuova Banca di Sviluppo Mondiale. Distruggere l’ordine precostituito, edificandone uno completamente nuovo dove le diverse sensibilità nazionali vengano rispettate e in cui il termine universale venga bannato per sempre. Un mondo nuovo in cui si possano allacciare indifferentemente relazioni con presidenti democraticamente eletti, autocrati, veri e propri dittatori, sempre all’insegna di un rispetto reciproco.
Questo nuovo ordine mondiale esercita una certa attrattività su una gran parte dei paesi del mondo, soprattutto su quelli che più di tutti hanno subito il colonialismo e la dominazione occidentale. La guerra in Ucraina e la sua condanna da parte della comunità internazionale esemplifica alla perfezione questa divisione. Quasi tutto il Sud Globale si è astenuto dal condannarla. Stati come il Brasile, il Sud Africa, storicamente allineati su posizioni atlantiste, stanno ora avvicinandosi all’orbita gravitazionale cinese, insieme a quelli notoriamente contrari all’universalità dei diritti occidentali come Iran, Nord Corea, alcuni Stati africani, la stessa India.
Ciò non toglie che la Cina fa propria quella forma di neo-colonialismo impiegata nella storia dagli stessi avversari politici che critica. Ciò non toglie che i cinesi stessi utilizzino il loro potere economico per condizionare e stritolare a sé commercialmente coloro che se ne distaccano. Di nuovo, stessa cosa fecero gli occidentali nelle loro colonie. Ciò non toglie che Pechino si dichiari garante della sovranità nazionale

ma, al contempo, appoggia un paese (la Russia) che ha invaso unilateralmente un sesto del territorio di un altro (l’Ucraina).
Tutto questo verrà poi sviluppato nella puntata seguente, smascherando, una ad una, le ipocrisie e le incoerenze del partito comunista cinese. Questa introduzione, e vogliate perdonarmi per la lunghezza, è necessaria se si vogliono comprendere le mosse geopolitiche del Dragone in questi ultimi tempi, su una dimensione più valoriale. La domanda che lascio tuttavia aperta è la seguente: il rispetto dei diritti umani, il culto della democrazia, la tutela delle libertà individuali possono giustamente considerarsi dei valori universali? O sono piuttosto solo alcune delle diverse visioni politiche esistenti? Io non avrei dubbi sul quale risposta scegliere.

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