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Sale il Pil e calano le emissioni, ma non basta: luci e ombre del ‘decoupling’ europeo

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“Il prodotto interno lordo dei singoli Paesi sta alla base delle decisioni politiche, e la missione dei governi sembra essere di aumentare il Pil il più possibile, obbiettivo che è in profondo contrasto con l’arresto del cambiamento climatico”. Le parole del premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, pronunciate nell’Aula di Montecitorio nel 2021 (per la riunione pre-COP 26), sollevano quesiti importanti ancora oggi. Si può conciliare la crescita economica con la riduzione delle emissioni necessaria per combattere la crisi climatica? Alcuni dati Eurostat sembrano suggerirlo, mentre Giampaolo Galli, economista dell’Università Cattolica del Sacro cuore e direttore dell’Osservatorio conti pubblici italiani, a Fortune Italia spiega che in realtà non c’è molta scelta. Pil e riduzione delle emissioni devono andare di pari passo. E un ruolo fondamentale lo hanno gli investimenti pubblici.

Dall’altra parte, le emissioni hanno delle conseguenze negative anche sulla salute delle persone: un impatto sul Pil considerevole, spiega a Fortune Italia il presidente di Sima Alessandro Miani, che non può essere dimenticato.

Emissioni e Pil: i dati Eurostat

Lo spunto per tornare a parlare del rapporto tra Pil ed emissioni di gas serra lo offre la nuova pubblicazione dei dati trimestrali, da parte dell’Eurostat, sulle emissioni in Unione europea. Nel primo trimestre del 2023, le emissioni di gas serra dell’economia dell’Ue hanno totalizzato 941 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti (CO2-eq), una diminuzione del 2,9% rispetto allo stesso trimestre del 2022 (969 milioni di tonnellate di CO2-eq).

I dati forniti da Eurostat sulle emissioni dell’Unione Europea in relazione al Pil

 

Questa diminuzione è avvenuta contemporaneamente a un aumento dell’1,2% del prodotto interno lordo dell’Ue nel primo trimestre del 2023, rispetto allo stesso trimestre del 2022. I dati mostrano che, rispetto al primo trimestre del 2022, le emissioni sono diminuite in 5 su 9 settori economici. Il calo maggiore è stato registrato in ‘elettricità, fornitura di gas’ (-12,3%). Il principale settore in cui le emissioni sono aumentate è stato il trasporto e lo stoccaggio (+7,2%). I settori economici responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra sono stati le famiglie (24%), l’industria manifatturiera (20%), l’elettricità, la fornitura di gas (19%), l’agricoltura (13%), seguiti da trasporti e stoccaggio (10%).

Dei 21 paesi dell’UE che hanno ridotto le proprie emissioni, solo 6 hanno ridotto anche il proprio PIL (Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Lussemburgo, Ungheria e Polonia). Al contrario, 15 paesi dell’UE (tra cui l’Italia) sono riusciti a ridurre le emissioni aumentando il proprio Pil.

Proprio l’Italia si colloca abbastanza bene in queste statistiche: le emissioni sono calate del 5% nel primo trimestre 2023, mentre il Pil è cresciuto del 2%.

I dati di un singolo trimestre naturalmente non sono molto significativi, commenta Giampaolo Galli, “ma lo diventano se si guardano tendenze di più lungo periodo. Allora uno vede che nel primo trimestre del 2010 le emissioni erano molto superiori”. Se si confrontano i dati del primo trimestre del 2010 con quelli del primo trimestre 2023, infatti, si vede come il dato sulle emissioni del primo trimestre dell’anno è passato da 1172 a 941 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti: un calo di quasi il 20% avvenuto “in un arco di tempo in cui il Pil europeo è aumentato notevolmente. Quindi è in corso un decoupling, è evidente”.

Sta avvenendo quindi quel ‘disaccoppiamento’ (decoupling appunto) tra crescita economica ed emissioni (e quindi utilizzo di combustibili fossili) che l’Ipcc dell’Onu ritiene necessario per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità ambientale e di emissioni nette zero? Quello che conta, dice Galli, è che in ogni caso non sta avvenendo abbastanza in fretta.

 

Secondi i dati Eurostat sulle emissioni Ue l’Italia si colloca abbastanza bene in queste statistiche: le emissioni sono calate del 5% nel primo trimestre 2023, mentre il Pil è cresciuto del 2%.

Emissioni europee: le consideriamo tutte?

Qualche anno fa, prima della pandemia e del rimbalzo post pandemico che ne è seguito (che hanno posto grossi interrogativi sulla capacità del mondo di continuare a ridurre le emissioni mentre si insegue la crescita dell’economia) il Global Carbon project (basandosi su dati della banca mondiale) aveva dimostrato come negli anni tra 2011 e 2016 la crescita economica globale sia aumentata due volte più rapidamente della domanda globale di energia e delle emissioni di CO2.

Il problema è che il percorso di decoupling mondiale intrapreso fin qui non è ancora abbastanza, ricorda Galli: “Stando ai fisici dell’Ipcc dell’Onu, che collaborano con i grandi centri di ricerca economici come quello della Banca mondiale, la riduzione non è sufficiente per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero nel 2050. Quindi c’è ancora moltissimo che deve essere fatto”.

Prendiamo, appunto, il caso del nostro continente. Un report a questo lo ha dedicato la Corte dei conti europea, che sostiene come mentre gli obiettivi per il 2020 in materia di energia e clima sono stati raggiunti, ci sono scarsi segnali che le azioni intraprese per conseguire gli obiettivi per il 2030 saranno sufficienti.

La Corte raccomanda alla Commissione europea di “assicurare una maggiore trasparenza sulla performance dell’Ue e degli Stati membri sull’azione per il clima e l’energia; tenere conto di tutte le emissioni di gas a effetto serra prodotte dall’Ue, comprese le emissioni associate agli scambi commerciali e quelle causate dal trasporto aereo e marittimo internazionale; sostenere l’impegno degli Stati membri per il raggiungimento degli obiettivi per il 2030”.

Il secondo punto riguarda proprio i dati sulle emissioni: la Corte parla infatti del problema dell’approccio statistico utilizzato in Europa, basato sul “consumo”.

I dati che testimoniano il calo dell’impronta carbnica europea non considerano infatti proprio tutte le emissioni, perché i conteggi si basano sulla produzione. “Se l’Ue utilizzasse un approccio ‘basato sul consumo’, in cui le emissioni includono la ‘rilocalizzazione delle emissioni di carbonio’ e sono calcolate in base al luogo in cui i prodotti sono consumati anziché fabbricati, si stima che le emissioni dell’UE risulterebbero più elevate dell’8% rispetto ai livelli attualmente indicati: 300 milioni di tonnellate aggiuntive di CO2. Ciò è imputabile al fatto che l’UE è un importatore netto di merci provenienti dal resto del mondo”, ha spiegato la Corte dei conti europea nel suo report. Otre a quell’8%, non vengono contabilizzate anche le emissioni derivanti dal trasporto aereo e marittimo internazionale (rispettivamente 3,4 % e 3,6 %).

Giampaolo Galli, in una foto del 2016. ANSA/GIORGIO ONORATI

“Molte delle cose che importiamo dai Paesi emergenti hanno un’alta concentrazione di CO2 ed è molto difficile da misurare l’impatto di tutta la catena del valore”, spiega Galli. Su questo la Commissione si è mossa: nel pacchetto Fit for 55% propone un meccanismo di adeguamento alle frontiere per una serie di settori (ad esempio ferro e acciaio, e cemento). Una carbon border tax che dà un prezzo alla CO2 associata alle merci importate in UE, per cui gli importatori di merci fabbricate al di fuori dell’UE dovranno acquistare certificati sulle emissioni: in questo modo, ci si potrebbe avvicinare a un approccio di misurazione delle emissioni  “basato sul consumo”.

Il dilemma della crescita

La relazione tra la riduzione delle emissioni e la crescita economica è complicata, dice Galli. Se il decoupling non avviene abbastanza velocemente, c’è bisogno allora di un cambiamento radicale? Abbandonare del tutto il modello della crescita economica?

“C’è chi dice che per ridurre le emissioni bisogna necessariamente ridurre la crescita. La mia impressione, invece, è che senza crescita è molto difficile avere le risorse necessarie per fare gli investimenti che servono a ridurre le emissioni”, sostiene il professore. “La mia ricetta, sicuramente, non è quella di abbattere la crescita. Se questa fosse la via, non sarebbe socialmente accettabile. Ci sarebbero ribellioni di massa, come quelle in Francia. Se la via fosse solo quella delle tasse, di carbon tax molto elevate e della riduzione della crescita in attesa di un mondo migliore… sarebbe una strada perdente: nessun governo riuscirebbe a resistere alle tensioni sociali che ne deriverebbero”.

La crescita di per sé produce aumento di emissioni, spiega Galli, quindi ci vuole un “fortissimo intervento pubblico. In generale non sono molto favorevole alle politiche industriali, ma questo è un caso in cui un riorientamento da parte dello Stato è assolutamente necessario”.

Il professore fa l’esempio degli Stati Uniti: “L’Inflation reduction act di Joe Biden è un colossale programma di trasformazione dell’economia americana. Gli Usa hanno imboccato in maniera molto decisa la via delle rinnovabili e dei veicoli elettrici. Questo in Ue avviene più lentamente. Gli obiettivi europei sono ambiziosi ma la capacità dell’Europa di mettere in campo misure efficaci per ridurre le emissioni è limitata anche perché molti paesi europei hanno scarsissimi margini di bilancio”.

Ora naturalmente l’incognita principale è l’inflazione, che limita anche la capacità di spesa pubblica. Un discorso che riguarda anche il Pnrr italiano. “È evidente che, per dato budget, un aumento del costo delle materie prime riduce la quantità di investimenti che si possono fare. È inevitabile che ci sia un qualche ridimensionamento degli obiettivi”. Sia sulla capacità di crescita economica che sulla riduzione delle emissioni, insomma, “l’inflazione rimane un incognita”.

Pil o non Pil?

Il Pil non misura la felicità e non necessariamente misura il benessere, dice Galli, ma ha comunque un’importanza centrale. “Si sono fatti tanti tentativi per trovare altre misure, come la speranza di vita, il grado di salute della popolazione, i nati vivi, ma alla fine si è scoperto che quasi tutte sono strettamente correlate con il pil procapite”.

Insomma, “i soldi non sono tutto, ma senza i soldi non si fa molto”, dice Galli. “In uno studio dell’Osservatorio sui conti pubblici abbiamo osservato come le varie misure di benessere siano correlate con il Pil. Ci sono delle eccezioni, ma la regola è che quasi tutte le misure hanno a che fare con il Pil”. I Paesi più ricchi, ad esempio, “possono permettersi un sistema sanitario pubblico più efficiente, o i sussidi di disoccupazione”.

Quanto ci costa la crisi climatica (e l’impatto sulla sanità)

Prendiamo il problema da un altro punto di vista:, che riguarda proprio il sistema sanitario: se è vero che un abbassamento delle emissioni non è causa diretta di un aumento della crescita economica, è anche vero che la conseguenza delle emissioni, cioè l’aumento delle temperature e la crisi climatica, ha un impatto negativo sull’economia.

In un paper pubblicato a luglio dalla Banca d’Italia, si sostiene “la temperatura media in Italia è aumentata di circa 2°C dalla fine dell’Ottocento. In uno scenario di emissioni che conducano a un ulteriore aumento di 1,5°C tra oggi e il 2100, il PIL pro capite potrebbe risultare alla fine del secolo tra il 2,8 e il 9,5 per cento inferiore rispetto al valore che avrebbe nel caso in cui crescesse (il Pil, ndr) del 2% l’anno, il ritmo medio registrato nel secolo scorso.

Ma un aumento delle emissioni significa anche impattare sulla salute delle persone. E si può usare come riferimento sempre il Pil, dice Alessandro Miani, presidente di Sima, società italiana di medicina ambientale. “Meno emissioni significa meno patologie, e quindi meno costi per i sistemi sanitari nazionali. Gli economisti europei hanno dimostrato che esiste un impatto negativo che arriva in media al 10% del Pil e che è dovuto proprio ai costi sanitari diretti conseguenza all’inquinamento atmosferico europeo”.

Alessandro Miani
Alessandro Miani, presidente Sima

Intanto, l’Italia continua ad essere il primo paese per decessi provocati dall’inquinamento, anche se secondo l’Agenzia europea per l’ambiente c’è stata una diminuzione di questo tipo di morti nel continente, con la conseguenza di “migliori aspettative di vita”. In base alle ultime stime dell’Aea, nel 2020 almeno 238.000 persone sono morte prematuramente nell’UE a causa dell’esposizione all’ inquinamento. Tra il 2005 e il 2020 il numero di decessi prematuri da esposizione a PM 2,5 nell’Ue è però calato del 45 %. Se questa tendenza si conferma, l’UE dovrebbe raggiungere l’obiettivo del piano d’azione per l’inquinamento zero che prevede una riduzione dei decessi prematuri del 55 % entro il 2030.

In Italia però “la flessione è stata più contenuta”, spiega Miani, e quindi il trend di “decrescita delle emissioni dovrà essere implementato di molto: si tratta della prima emergenza sanitaria per impatto sulla popolazione”. Secondo la Sima presieduta da Miani, l’impatto dell’inquinamento in Italia corrisponde a circa 61 miliardi di euro persi ogni anno, in termini di costi sociali e sanitari.

Cosa fare allora? Qualsiasi azione va intrapresa “senza ricadute economiche sulle famiglie e sulle imprese”, dice Miani, che come Galli parla dell’aspetto sociale del cambiamento: “Deve esserci una transizione anche socialmente accettabile: il rischio è di impoverire famiglie e imprese riducendo la capacità di qualità della vita complessiva. Per fare questo e avere una transizione energetica più corretta nei tempi ci si può rivolgere alla scienza e ci sono tantissime innovazioni che possono essere implementabili ed essere in grado di ridurre di molto inquinamento”, come quelle edilizie delle vernici che assorbono gli elementi inquinanti. Vernici per superfici murarie e infrastrutture (“con brevetti italiani”, sottolinea Miani) che sono in grado di ridurre inquinamento atmosferico dal 30% fino all’84%. “Con un piano di mitigation basato anche su soluzioni simili , potremmo, a costi molto contenuti, avere una transizione ecologica più aderente alle finanze dello Stato”.

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