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Tra regole e comunicazione, la sfida del lobbying. Brunetta: ok a un registro presso il Cnel

Oggi, nonostante in 50 anni si siano accumulati in Parlamento un centinaio di disegni di legge sul fenomeno del lobbying, l’Italia rimane uno dei pochi Paesi dove le norme non chiariscono in che modo si possa fare rappresentanza d’interessi. È per questo che il vuoto normativo sul lobbying è al centro di ogni discussione sul tema: quella organizzata da Fortune Italia presso la sede Treccani di piazza dell’Enciclopedia, a Roma, ha cercato di aggiungere qualcosa in più, unendo al tema delle norme anche quello del ruolo della comunicazione e dell’editoria, e raccogliendo gli auspici degli attori del settore e dei rappresentanti di istituzioni importanti, con il Cnel guidato da Renato Brunetta.

In questo momento, un percorso per una nuova legge è stato (nuovamente) avviato, con un’indagine conoscitiva in Parlamento per arrivare a una legge sulla regolamentazione delle lobby e un nuovo disegno di legge.

Un ruolo fondamentale potrebbe averlo proprio il Cnel: il presidente Brunetta, in chiusura di evento e a colloquio con il direttore responsabile di Fortune Italia Paolo Chiariello, ha confermato la disponibilità a ospitare in un luogo terzo come il Cnel un registro dei rappresentanti d’interessi, se previsto da una nuova legge.

Lobbying, l’apertura di Brunetta: Il Cnel può ospitare il registro dei rappresentanti di interessi

Le sfaccettature di un fenomeno complesso

Il vuoto normativo non è l’unico problema affrontato dai lobbisti italiani. C’è un concetto particolarmente difficile da eradicare: quello dello ‘sporco lobbista’ (che non può essere più una scusa per arroccarsi, secondo i professionisti riuniti per l’evento). Il fatto che manchino regole chiare è sicuramente un fattore fondamentale. Il risultato? Si allontanano le imprese e si spreca la possibilità di avere nuovi investimenti, mentre il fenomeno – che va dai grandi Gruppi alle associazioni di lobbying civico che danno voce anche a chi ha meno risorse – rimane nell’ombra. Per questo l’Ocse dice che la mancata regolamentazione del lobbying incide in maniera consistente anche sul Pil.

Nel circolo vizioso tra regole e immagine dei lobbisti la comunicazione è parte integrante del discorso, tra public affairs e rappresentanza d’interessi.

Per questo alla discussione di Fortune Italia si è voluta aggiungere una sfumatura diversa rispetto al solito: che ruolo hanno la comunicazione e l’editoria nell’attività di lobbying? È stato questo il tema della tavola rotonda ‘Comunicazione, editoria e rappresentanza d’interessi’, moderata da Donato Occhilupo di Fortune Italia, esperto di public affairs.

Il ruolo del lobbying civico

Alla discussione (che ha fatto seguito a 6 tavoli di lavoro tra esperti e professionisti del settore) hanno partecipato attori come Federico Anghelè, direttore The Good Lobby Italia, l’associazione no profit che si focalizza sulla partecipazione dal basso nelle campagne di pressione su tematiche sociali.

In questo caso il tema è propriamente politico: se la crisi dei partiti ha creato un vuoto nell’accesso al potere da parte dei cittadini, qual è il ruolo del lobbying civico? “I partiti non hanno più il ruolo di cinghia di trasmissione che avevano prima, di collettore di istanze e traduttore di queste nelle istituzioni”, dice Angelè. “Questo ha provocato una maggiore capacità di attrezzarsi dei portatori d’interesse: il settore è in ampia crescita, tutte le grandi aziende multinazionali si sono dotate di un ufficio. Non la stessa cosa hanno fatto le organizzazioni del terzo settore, che hanno uno scatto culturale da fare”, aggiunge.

“L’idea del lobbying civico è di colmare quel gap, fare in modo che vengano rappresentati interessi generali troppo spesso non in grado di emergere per mancanza di percorsi di partecipazione e coinvolgimento. Il lobbying civico ha anche questo compito: colmare la mancanza di rappresentanza”. Una nuova regolamentazione deve necessariamente passare, dice Anghelé di The Good Lobby, dalla partecipazione di tutti gli stakeholder.

Il filo comune tra comunicazione, editoria e rappresentanza d’interessi

Per Davide Arduini, Presidente di UNA, Aziende delle Comunicazioni Unite, “il mondo della comunicazione è stato stravolto dalla tecnologia, fino all’intelligenza artificiale che, anche nell’elaborare le notizie, diventa sempre più affidabile”.

Ma oltre al tema tecnologico, va sottolineata la stessa funzione di ‘impatto’ di player diversi, influencer compresi. “Si tratta di un mercato che vale attorno al miliardo di euro, comincia a pesare tantissimo. E cosa è un influencer, si tratta di un media o di un trasmettitore di contenuti? Emerge che è necessario trovare un modo per confrontarsi: il lobbista e il comunicatore hanno percorsi paralleli. L’influenza deve essere gestita, per evitare casi estremi”. Per una regolamentazione sulla rappresentanza d’interessi e sulla comunicazione, per Arduini gli elementi chiave sono equità, trasparenza, e stop al greenwashing.

Secondo Daniela Bianchi, Segretaria Generale Ferpi (Federazione relazioni pubbliche italiana) il lobbying non nasce solo da una crisi del sistema: “L’attività di lobbying c’è sempre stata, senza una rappresentanza d’interessi il sistema stesso non esisterebbe. Dovremmo uscire dalle clusterizzazioni per capire di cosa parliamo”. Gli spazi per la rappresentanza di interessi infatti “ci sono sempre stati, ma cambiano le categorie in cui la esercitiamo. Il nostro mestiere ha a che fare con il matching tra rappresentanza di un interesse particolare e responsabilità di un interesse generale”.

Comunicazione, editoria e rappresentanza di interessi hanno una parola in comune, che è ‘influenza’, secondo Bianchi. “Probabilmente la sfida è capire con che radicalità io declino quella parola” in un processo decisionale. “Non mi spaventa pensare che comunicazione e editoria vogliano essere rappresentanti d’interessi, perché tutte e tre hanno una declinazione in termini di influenza. E se ci vogliamo veramente impegnare sulle regole”, il processo decisionale e l’impatto dell’influenza “sono due dimensioni da cui non si può prescindere”.

Le nuove competenze e le preferenze delle aziende

Niccolò De Arcayne, Segretario Generale Agol – Associazione giovani opinion leader, ricorda che l’organizzazione cerca di favorire uno scamio di opinioni e vedute tra diverse generazioni. Come con l’iniziativa ADesempio organizzata con Fortune Italia: “Un momento di confronto tra amministratori delegati e giovani per favorire lo scambio intergenerazionale”.

Secondo De Arcayne “servono nuove competenze”, anche se ora nel public affairs l’offerta formativa è esplosa: “Nel 2015 c’erano forse due programmi di master, oggi si è aperto un mondo in tutte le regioni: anche il giovane milanese appassionato di politica può formarsi, prima doveva venire a Roma. Gli under 35 sono sempre più interessati al public affairs e disposti a investire in questo tipo di formazione dopo magari aver conseguito una laurea”.

Dall’altro lato le aziende comprendono l’importanza strategica delle relazioni istituzionali, e ora prediligono competenze nuove. Prima si privilegiavano competenze trasversali, “oggi le aziende vogliono verticalità: funzioni che si occupano esclusivamente di un settore, dall’healthcare all’energia”. Per il segretario generale di Agol per una regolamentazione servono competenze e una maggiore comunicazione.

Public affairs, l’avvento dei grandi Gruppi

Angela Marchese è presidente dell’associazione no profit Il Chiostro per la trasparenza e professionalità delle lobby e professore a contratto in lobbying e public affairs presso il dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale di Sapienza Università di Roma. Per Marchese essere non regolamentati in Italia è stato uno svantaggio, “ma ci permette di regolamentare fenomeni nuovi come l’avvento dei grandi Gruppi internazionali e le boutique locali, due manifestazioni della rappresentanza d’interessi. Dovremmo iniziare a chiederci chi è il portatore d’interessi: ad esempio se sono un grosso Gruppo di public affairs, sono in grado di spostare interessi dedicati in tutto il mondo”. L’ottica del portatore d’interessi, insomma, “sta diventando globale”.

Tenendo presente l’esistenza di questi grandi Gruppi, attivi non solo nel lobbying in senso stretto, “comunicazione, editoria e rappresentanza devono essere normati ognuno con regole specifiche, perché altrimenti ci ritroveremo dei mostri in grado di influenzare le politiche dei governi”. Bisogna ragionare su “quanto sia opportuno che questi Gruppi di public affairs possano essere proprietari di testate, forse è una concentrazione di potere eccessiva”.

Per Marchese le priorità per una nuova regolamentazione sono un registro obbligatorio e regole uguali per tutti: “Chi decide di fare il lobbista e appartiene a un ordine deve decidere di seguire le regole dei lobbisti: classico esempio, quello degli avvocati”.

Marcello Presicci, Segretario generale della Scuola Politica “Vivere nella Comunità”, spiega che la “scuola politica nel suo percorso fornisce anche strumenti per advocacy e lobbying, destinando all’advocacy molte risorse”. Presicci torna sul tema del vuoto dei partiti: “Nel dopoguerra gli iscritti ai partiti tra i cittadini erano l’8%, oggi sono il 2%. La gente si è disaffezionata rispetto alla sfera partitica più che politica, ma non sono d’accordo che giovani non si interessino della cosa pubblica”. Aumenta infatti “il numero di ragazzi che vorrebbero avere quelle soft skill che non apprendono in università, per quanto sia il contesto per eccellenza della formazione del capitale umano”.

L’idea alla base della missione di “formare la classe dirigente del futuro è proprio questa: dare strumenti difficilmente presenti sul mercato della formazione. Nella classe dirigente le chiavi decisionali su come gestire le relazioni istituzionali sono chiavi indispensabili”.

Sul tema della comunicazione, del giornalismo e dell’editoria, Presicci dice che lo stato di salute dei media italiani non è straordinario anche perché a volte il giornalismo è viziato da “interessi particolari. C’è una zona grigia in questo ambito e devo dire che rappresentanza d’interessi in editoria è totalmente parziale, rappresenta una parte andando contro un’altra. Non so come andrebbe regolamentata perché esiste un ordine ufficiale dei giornalisti, ma non qualcosa di simile per i lobbisti: difficile quindi instaurare un dialogo.

Un vuoto normativo che dura da 50 anni

L’ultimo tentativo di regolamentare il lobbying – e, di fatto, il processo che porta alle decisioni pubbliche – è arrivato durante il Governo Draghi caduto nel 2022, proprio quando era in programma il voto sulla legge al Senato.

Salvatore De Meo, Presidente Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo in una recente intervista su Fortune Italia aveva spiegato come anche l’Europa, dopo il Qatar Gate, abbia cercato di affrontare il tema etico e della trasparenza.

“Ciò che è accaduto – ha detto durante la seconda tavola dell’evento, moderata dal direttore editoriale di Fortune Italia Emilio Carelli – ha riguardato un soggetto che ha utilizzato la sua precedente funzione parlamentare, e un’organizzazione che avrebbe dovuto essere registrata nel nostro registro della trasparenza, mentre questo non è stato osservato”.

La reazione però secondo De Meo c’è stata: “all’indomani dei fatti più gravi la presidente Metsola ha voluto un documento programmatico di 14 punti per rafforzare la trasparenza e l’integrità del Parlamento. Un testo che fa in modo che vengano implementate regole esistenti e che venga protetta l’attività parlamentare eliminando le ingerenze, ed evitando le situazioni di conflitto d’interesse anche in corso d’opera. “Alcuni gruppi hanno fatto qualche resistenza” in Parlamento, dice De Meo, ma il documento “è stato un atto dovuto”.

La rappresentazione d’interesse, dice, “è un fenomeno positivo: è uno strumento di approfondimento. Anche la mia attività deve passare da un registro della trasparenza”. Ma quali norme europee dovrebbero essere recepite dalle regole in Italia? De Meo indica con sicurezza il “registro della trasparenza obbligatorio per chi ha rapporti con le istituzioni”. L’accezione negativa del lobbying ha poco senso anche considerando la funzione dei rappresentanti d’interesse “di fronte a fascicoli molto complessi. Abbiamo bisogno di riabilitare il loro valore positivo”.

De Meo ha anche parlato dell’Organismo etico indipendente per le istituzioni europee, che deve avere la funzione “di armonizzare le regole delle tre principali istituzioni europee; si è dato il via alla raccolta delle norme di miglioramento per evitare che ci siano disparità tra istituzioni europee, per riaffermare la legittimità di un’istituzione popolare”, il Parlamento europeo, che all’indomani del Qatar Gate  – su cui ci sono ancora indagini in corso – si è sentito delegittimato in maniera impropria, per “colpa di alcuni soggetti”. Una generalizzazione sbagliata, quella contro Strasburgo, avvenuta “proprio quando l’Europa cercava di avere ruolo strategico” a livello geopolitico. L’obiettivo dell’organismo etico, oltre ad armonizzare le regole, è quello di “rafforzare la percezione dei cittadini, che sono il nostro punto di riferimento”.

“Il lobbying è come il tango: bisogna essere in due”

Secondo Alberto Alemanno, Ordinario di Diritto dell’Unione europea dell’HEC Paris, “l’accezione negativa del lobbying c’è in qualsiasi paese: la sfida di demistificare il lobbying e renderlo percepito come un’attività legittima è una sfida per tutti, in particolare per chi deve raccontare ai propri figli di essere un portatore d’interessi. Questa difficoltà di percepire il lobbying come necessario è qualcosa che si pone in ogni tipo di giurisdizione. Nell’Ue abbiamo solo un quarto degli Stati membri che hanno introdotto regole di trasparenza. Ma bisogna sapere chi esercita lobbying per conto di chi e con quali risorse: è l’approccio dei Paesi dotati di un tale registro”.

Anche Alemanno fa riferimento all’ultimo rapporto Ocse che ha legittimato le lobby nel processo democratico. Inoltre “non dobbiamo solo pensare a regolamentare il portatore d’interesse ma anche il decisore: c’è confusione tra questi due ambiti. Il lobbying è come il tango: bisogna essere in due, e se spostiamo l’attenzione sul decisore riusciamo a completare il quadro e fare una regolamentazione che normalizza un fenomeno che la società stigmatizza: la regolamentazione cambia la norma sociale”.

Secondo Alemanno, “dobbiamo guardare alle nuove proposte come quella italiana come un’opportunità per essere ambasciatori di una componente essenziale di una democrazia che si forma dal basso e che trova i propri canali”. Una democrazia che esiste “in maniera assolutamente complementare e non antagonista alla democrazia rappresentativa”.

Per Carla Bassu, Ordinario di Diritto Pubblico comparato dell’Università di Sassari, “l’attività di rappresentanza d’interessi è funzionale all’impianto costituzionale, che è un impianto pluralista, nel senso che il decisore deve conoscere gli interessi plurali: questa è la chiave. L’emersione di questi interessi. Non bisogna nascondere il dialogo con i decisori pubblici, nella logica della trasparenza”.

Queste relazioni, dice Bassu, “sono fisiologiche e strumentali. Le regole devono essere impostate anche nella logica delle pari opportunità per tutti gli attori che vogliono entrare in contatto con i decisori pubblici. Guardando ai progetti oggi all’attenzione del Parlamento augurerei una ottica premiale e non sanzionatoria ma anche culturale: nella nostra cultura costituzionale questa associazione tra male assoluto e lobbista è molto profonda”.

Lobbying, l’importanza di avere un registro

Silvia Fregolent, capogruppo in ottava Commissione al Senato di Azione – Italia Viva, è firmataria di una delle proposte di legge sul lobbying che hanno poi prodotto la proposta condivisa arrivata quasi al traguardo lo scorso anno: un peccato perché “al Senato la forza per fare le modifiche e farla passare c’era”.

Ha spiegato che durante la scorsa legislatura “con il tempo la proposta l’ho cambiata spostando il registro all’autorità della concorrenza”, mentre prima si era pensato alla magistratura. “La proposta che andò in porto era fonte di tanti gruppi politici tranne Fdi, quindi con visioni diverse”, tra chi metteva sanzioni e divieti molto stringenti ai portatori d’interessi e chi, come nel caso della proposto firmata da Fregolent, poneva l’accento sulla necessità di un registro nazionale.

Fregolent lancia due allarmi, connessi al tema e che rendono ancora più urgente l’approvazione di una legge sul lobbying: il reato di traffico d’influenze, particolarmente pericoloso per i portatori d’interessi – “spero che ci sia la forza di abrogarlo” – e la trasparenza: “Io cittadino devo sapere chi voto. Devo sapere che se voto X so che faranno determinate battaglie politiche”.

Un registro pubblico, spiega Fregolent, renderebbe trasparente “lo scambio tra chi deve prendere la decisione e chi ha proposto qualcosa”, così da rendere più chiare anche le battaglie portate avanti da un determinato attore politico. Il registro, insomma sarebbe la chiave per risolvere quel famoso circolo vizioso tra regole e immagine del lobbying. Perché l’accezione negativa “di lobby nel nostro Paese c’è ancora: non è un falso mito“, dice Fregolent.

 

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