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Trasferimento tecnologico, servono creatività e coraggio

Giorgio Ventre, direttore scientifico dell’Accademia per sviluppatori di Napoli

Prendi una buona idea e mantienila. Inseguila e lavoraci fino a quando non funzionerà. Pare lo abbia detto Walt Disney, ma potrebbe essere il monito di qualsiasi Technology transfer office. Il passaggio dalla ricerca al business è frutto della collaborazione tra ricerca universitaria e imprese, e la creatività, come nelle storie del celebre inventore di Mickey Mouse, conta.

“Si comincia dalle idee. Poi occorre applicare un’invenzione nella realtà”, ci ha spiegato Giorgio Ventre* (nella foto in evidenza), direttore scientifico della Apple Developer Academy presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Un po’ come se il trasferimento tecnologico fosse il bozzetto che diventa cartone animato. In Italia la ricerca dà parecchi risultati, ma la quantità di brevetti concessi e valore espresso per singolo brevetto non è all’altezza di quelli degli altri Paesi europei. Siamo un popolo fantasioso e anche piuttosto pratico. Eppure. Servono strategie, fondi e personale qualificato in grado di individuare le potenziali innovazioni e trasformarle in prodotti e servizi che generino un adeguato ritorno economico.

Lei è il direttore scientifico della Apple Developer Academy, la scuola in cui gli allievi imparano a sviluppare app per l’ecosistema iOS. Agli italiani l’inventiva non è mai mancata. Ma nel nostro Paese, un’invenzione può diventare qualcosa di brevettabile? È mai successo?

La domanda è pertinente, la risposta complessa. Un brevetto non nasce sempre in un’università o in un centro di ricerca, perché fortunatamente questo è un Paese che ha una creatività estesa, possiede competenze diffuse. Ma siamo la nazione Ocse che come rapporto pubblicazione-brevetti ha uno degli indici peggiori. Siamo bravi a immaginare le cose: un processo chimico, industriale, un nuovo materiale. Meno bravi a trasformarle in qualcosa di utile. Questo perché il mondo della ricerca ha sempre visto la realizzazione concreta come un aspetto secondario. E questo si riflette anche nel modo in cui i ricercatori fanno carriera: diventa professore chi fa più pubblicazioni, non chi fa più brevetti. Inoltre per poter trasformare un’idea in una startup o brevetto bisogna aver chiaro come applicarla nella realtà. Per farlo occorre un ecosistema industriale che supporta, stimola, chiede. Quando ero a Berkeley, nel mio post doctoral, ogni 6 mesi avevamo un incontro obbligatorio con l’ufficio dell’Industrial liaison program che ci domandava cosa stessimo facendo. In Italia non avviene.

Quando si inventa qualcosa di nuovo, chi è il proprietario?

In Italia esisteva, fino a poco tempo fa, il ‘professor privilege’. Ovvero: se io sono un ricercatore all’interno dell’università e faccio una scoperta, il diritto di proprietà dell’invenzione è mio, non della struttura alla quale appartengo. Il professor privilege è coerente con la visione ideologica dell’invenzione: che è di chi ha l’idea, non di chi la finanzia. Tuttavia un ragionamento del genere comporta che le università non possono investire sui brevetti fatti dai propri professori. Anche se, va detto, le università italiane nel 90% dei casi non investirebbero comunque perché brevettare significa sostenere dei costi. A mio avviso eliminando il professor privilege si riduce l’incentivo per l’inventore, perché chi fa l’invenzione può almeno farne vanto. Se non può rivendicarla perché mettersi in gioco?

Quali sono i modelli o i metodi comuni utilizzati per facilitare il trasferimento tecnologico tra università, centri di ricerca e imprese?

Il trasferimento tecnologico rientra nella ‘terza missione’: la prima è la didattica e la seconda è la ricerca. Gli uffici di trasferimento tecnologico all’interno delle università sono piccolissimi, perché le università fanno essenzialmente didattica e ricerca. In genere è l’università che va verso l’impresa, oppure (è la strada più comune) sono le aziende che cercano novità. Più recentemente sono arrivati nuovi approcci. Henry Chesbrough, professore presso l’University of California a Berkeley, ha coniato il concetto di open innovation: un processo di innovazione diffuso basato sulla gestione dei flussi di conoscenza in entrata o in uscita dall’impresa realizzata con meccanismi monetari e non a seconda del modello di business dell’impresa stessa. Molte aziende hanno delle strategie di open innovation e fanno call verso startup e università, per avere idee su temi che loro indicano.
O hanno piattaforme software sulle quali pubblicano challenge. Qualche soggetto di governo locale, in particolare le Regioni, ha capito che per creare un ecosistema dell’innovazione occorre incentivarlo. La Regione Campania ha aperto una piattaforma di open innovation e si fa aiutare da un tool sostenuto da AI.

Qual è, secondo lei, il modello vincente?

Credo che vinca la domanda. Dovremmo fare in modo che siano i soggetti interessati alle invenzioni a sollecitare le università, i centri di ricerca. Sono scettico rispetto al fatto che l’università vada a vendere le proprie idee. Però bisogna incentivare il ruolo delle grandi aziende ‘di Stato’, o che hanno una golden share dello Stato e sono ritenute fondamentali. Devono (imperativo) investire in innovazione.

Quali sono i vantaggi e le opportunità che il trasferimento tecnologico può offrire alle imprese? Può fornire degli esempi concreti?

Normalmente all’interno delle organizzazioni l’innovazione è sempre incrementale: un piccolo cambiamento avviene su un processo già esistente. L’open innovation permette di avere idee fuori dal pack. È evidente che questo impatta anche su un ulteriore meccanismo. Se molte imprese italiane hanno una scarsa capacità di andare direttamente sul mercato, ma sono fornitrici per esempio di imprese tedesche (per fare un esempio concreto nella filiera dell’automotive) allora il mio interesse per l’innovazione è minore perché in realtà chi si deve occupare dell’innovazione di prodotto è colui per il quale lavoro. È una debolezza intrinseca del nostro modello. Però è anche vero che nonostante tutto, il nostro è un Paese in cui ci sono piccole imprese che fanno grande innovazione. E quindi rimango ottimista che se si pongono le giuste condizioni possiamo fare un enorme salto.

Quali sono i fattori chiave per il successo del trasferimento tecnologico?

Impresa e università devono dialogare e avvicinarsi. Io lavoro da tanto tempo all’ente università e noto con piacere che rispetto a trent’anni fa la disponibilità nel lavorare insieme alle imprese è aumentata notevolmente. Questo influisce anche nella didattica. Se sono un professore e insegno scienza dei materiali, e mi accorgo che la mia ricerca interessa le industrie, automaticamente sarà condizionata positivamente la mia didattica. Porterò ciò che ho scoperto nell’interazione con le imprese, perché il mondo del lavoro richiede determinate competenze e specializzazioni.

E gli errori da evitare?

Bisogna evitare di affrontare mega problemi. L’università non deve pensare di proporre la salvezza universale: tipico errore accademico. Dall’altro lato l’azienda deve investire nel processo. L’errore è quello di non dedicare risorse economiche sufficienti. Spesso l’impresa si avvicina a un processo di trasferimento tecnologico immaginando che sia immediato. Non è così. Devi entrare all’interno di un laboratorio, mettere i tuoi ricercatori al fianco di altri ricercatori del centro di ricerca dell’università. Il trasferimento tecnologico funziona quando è open, quando si lavora insieme.

In che modo le politiche governative e le istituzioni possono supportare e facilitare il trasferimento tecnologico?

Innanzitutto comprando innovazione, in tutti i settori più importanti: sanità, sicurezza, trasporti, scuola. Stiamo parlando dell’ossatura del Paese. Secondo me il ruolo principale dello Stato è quello di incentivare il cambiamento. Facciamoci una domanda: se sono il dirigente di una pubblica amministrazione, quanto sono incentivato a cambiare? In fondo se mantengo sempre le stesse cose sono più sicuro, risparmio e non corro rischi. Ma se trovo un meccanismo di incentivazione per il dirigente che cambia le cose, e le cose cambiano in meglio, faccio un lavoro utile al Paese. Chi non cambia o non è stato formato, o ha una seniority tale da non essere nemmeno interessato. Ecco perché abbiamo bisogno di giovani. In ogni caso servono fondi esplicitamente dedicati all’innovazione che incoraggino i dirigenti a cambiare. Il Pnrr va in questa direzione.

Quali sono le tendenze emergenti nel campo del trasferimento tecnologico?

Oltre all’open innovation, che è un fattore importante anche per il pubblico, una cosa che sta emergendo nel mercato delle startup e degli spin off è che prima le aziende si avvicinavano al mondo delle start up con il meccanismo dello scouting e dei programmi di accelerazione. Io, grande impresa, seleziono le startup e le faccio crescere. Le metto in filiera e le finanzio. Adesso sta venendo fuori il Venture Builder: i soggetti interessati a creare startup le vanno a prendere prima che siano startup. Prelevano l’idea, il team che è autore dell’idea e cercano di farla diventare un’impresa. È un processo più complicato, ma consente di avere un effetto diretto sull’invenzione, che ‘cresce’ già pronta per chi l’ha selezionata.

È un processo che ci consentirà di accelerare?

Perché no? Ma per accelerare servono strategie, fondi, personale qualificato. E coraggio.

 

*Professore ordinario di Computer Networks presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione dell’Università di Napoli Federico II. Laureato in ingegneria elettronica, Giorgio Ventre è anche Direttore Scientifico della Apple Developer Academy, creata dalla Federico II in collaborazione con Apple. Collabora con diversi ministeri e agenzie governative e con la Giunta regionale della Campania per iniziative legate a ricerca e innovazione, nonché al trasferimento tecnologico.

 

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