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Haiti tra crisi politica, violenza e missione di pace Onu

6, 13, 2021. Sembra una data scritta “all’americana”, eppure non stiamo parlando del 13 giugno 2021, bensì di: 6, gli anni trascorsi dalla fine dell’ultima missione Onu ad Haiti; 13 gli anni che durò quest’ultima missione (dal 2004 al 2017) e 2021, l’anno in cui fu ucciso il presidente haitiano. Facciamo un passo indietro e capiamo: come mai l’Onu ha deciso, in una riunione del Consiglio di Sicurezza, di mandare una missione di pace, guidata dal Kenya, ad Haiti? In che condizioni versa il “vicino di casa” della florida Repubblica Dominicana, sull’isola Hispañola? 

Nella notte tra il 6 ed il 7 luglio del 2021 il presidente haitiano, Jovenel Moïse, fu assassinato in casa. Sua moglie, Martine Moïse, che rimase gravemente ferita, venne trasferita a Miami per ricevere cure appropriate e si salvò. Claude Joseph, Primo Ministro all’epoca dei fatti, dichiarò che gli assalitori parlavano spagnolo e inglese, erano esperti e pesantemente armati. Condannò immediatamente l’atto disumano e chiese alla popolazione di restare calma, assicurando che polizia e forze dell’ordine avrebbero fatto il possibile per tenere la situazione sotto controllo. 

Durante un Consiglio dei Ministri straordinario venne decretato lo stato d’assedio su tutto il territorio nazionale,  ma questa misura non fu sufficiente e le forze dell’ordine non poterono nulla contro la criminalità armata ed organizzata che, da allora ad oggi, gestisce il territorio, terrorizzando i cittadini.

In base alla legge haitiana, lo stato d’assedio (dichiarato dal Primo Ministro uscente), per un periodo iniziale di 15 giorni, dà alle Forze armate il ruolo garanti della sicurezza nel Paese e prevede la creazione di tribunali militari, oltre a prevedere una stretta sui mezzi di comunicazione, isolando il paese dal resto della comunità Panamericana ed internazionale.

Ad oggi, dopo due anni dall’accaduto, abbiamo una visione più definita di quanto è successo, e continua ad accadere, nella parte haitiana dell’isola Hispañola. I confini con la Repubblica Dominicana sono stati sin da subito blindati, il presidente dominicano Luis Abinader ha attivato un dispiegamento di forze armate per difendere tutte le vie di accesso, fossero queste tramite terra, cielo o mare. 

Sin da subito le condizioni di libertà e democrazia sono sembrate instabili, infatti, il potere è stato preso da gang che hanno cominciato a gestire e che continuano a detenere il possesso di materie prime, carburante e beni di prima necessità. Il regime del terrore è ormai diffusissimo ad Haiti e il paese continua far parlare di se in senso negativo, diventando un vero e proprio “buco nero del mondo”, tanto che l’ambasciata degli Stati Uniti ad Haiti ha invitato tutti i cittadini americani presenti nel Paese a lasciarlo a causa della crescente insicurezza nell’isola. 

Haiti, da ultimo report internazionale vanta una posizione tra le top 5 nazioni per estrema povertà della popolazione, tanto che la maggior parte dei cittadini versa in condizioni al limite della sopravvivenza. Se, dal 2019, molti nella comunità internazionale hanno chiesto l’intervento dell’ONU, ad oggi queste richieste sono state ascoltate. 

Facendo un report numerico, così da poter quantificare il fenomeno e comprendere le condizioni in cui versa Haiti, dobbiamo considerare che il Paese conta 11 milioni di abitanti e solo 12.000 militari che, da soli, non possono fronteggiare le 200 e più bande armate in conflitto tra loro. 

Le gang gestiscono due terzi dell’isola, violano ogni diritto umano: stupri e rapimenti sono all’ordine del giorno, risultano 300 minori rapiti ed ingaggiati nelle bande armate. Nei primi sei mesi dell’anno corrente sono stati tre i giornalisti e reporter uccisi, sei quelli rapiti e sequestrati; un numero raccapricciante che segue quello dell’anno precedente. Nel 2022, Haiti si è guadagnata il terzo gradino del podio tra i paesi più pericolosi per i reporter e per i giornalisti, sono stati otto, infatti, i divulgatori d’informazione rapiti e poi brutalmente uccisi.

Haiti non solo è un paese, come già detto, ridotto alla fame, ma è uno Stato al limite del fallimento: l’attuale Primo Ministro (ad interim) Ariel Henry, subentrato il 20 luglio 2021, non è stato regolarmente e democraticamente eletto ed è considerato un leader illegittimo da gran parte degli haitiani. Lo stesso è sospettato di complicità nell’assassinio del suo predecessore e questo governo è accusato di aver contribuito a diffondere ed alimentare le bande che possono contare su collaborazioni con gruppi paramilitari.

Alla luce di ciò, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una missione di pace per Haiti che, guidata dal Kenya, porrà fine alle violenze. Tra i 15 membri del Consiglio, 13 hanno votato in favore della missione di pace, mentre Russia e Cina si sono astenute. Questa missione, come già accennato, arriverà a 6 anni dall’ultima e proteggerà infrastrutture nevralgiche come aeroporti, porti, scuole, ospedali e strade. Il Kenya, alla guida della missione, ha promesso almeno mille uomini e si prevede che altre nazioni stanzieranno risorse e mezzi. 

Ad Haiti le reazioni sono state molteplici, poiché, se da un lato, la polizia di Nairobi ha una reputazione dubbia e numerosi precedenti di abusi dei diritti umani; dall’altra parte, l’ intervento umanitario guidato dall’esercito americano in risposta al terremoto del 2010, ha sviluppato un acceso confronto sulla dipendenza dagli aiuti statunitensi e su presunti abusi da parte di alcuni operatori umanitari. 

In conclusione, quest’ultima missione, anche se guidata dal Kenya, ha suscitato numerosi dubbi, perché sembra essere legata a doppio filo agli egemonici Stati Uniti e viene vista dagli haitiani come l’ennesimo tentativo di imporsi sull’isola, ma, a detta del Primo Ministro, rappresenta “L’unico barlume di speranza per il Paese”.

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