NF24
Cerca
Close this search box.

Polveriera Medio Oriente, la carneficina di Hamas e il rischio di trascinare Israele in un conflitto regionale

La situazione è complessa. Talmente intricata che le parole non bastano. Dopo i deplorevoli atti terroristici compiuti da Hamas sui civili israeliani in quello che per sempre verrà ricordato come il sabato nero – 7 ottobre 2023 – la polveriera medio-orientale sembra sull’orlo di esplodere. Tra Israele e Hamas è ormai guerra. Gaza è sotto pesanti bombardamenti da parte dell’aviazione israeliana da settimane. Un’invasione di terra della Striscia, però, ancora non è avvenuta. Segno di un continuo negoziato che procede tra tutti gli attori coinvolti – locali, regionali e internazionali – ma che fatica a vedere la luce. Nello scacchiere medio-orientale le pedine stanno or ora posizionandosi.

Striscia di Gaza. Il fumo degli incendi dopo gli attacchi aerei israeliani su obiettivi di Hamas

Senza ombra di dubbio l’obiettivo a breve termine è una de-escalation del confitto, un allargamento del quale non gioverebbe a nessuno. Con questo preciso intento è stata concepita la missione del presidente statunitense Joe Biden. Una missione lampo che ha deluso chi si aspettava un passo avanti verso un cessate il fuoco. Washington non ha ottenuto i risultati sperati. In questo caso, bisogna riconoscere come il tempismo non abbia giocato a favore. Pochi giorni fa un’esplosione sull’ospedale di Gaza City ha turbato gli animi delle opinioni pubbliche mondiali. Sono centinaia le vittime tra i palestinesi: bambini, donne, anziani, la cui colpa è stata semplicemente quella di cercare riparo nel luogo che più di tutti dovrebbe essere lasciato fuori da un conflitto: l’ospedale. Le responsabilità dell’attacco, a rigor di logica, sono ricadute immediatamente su Israele. Tuttavia, la trama si infittisce: da giorni assistiamo ad un costante rimpallo di colpe, con tanto di prove (vere non si sa), da parte della Jihad islamica e Hamas da un lato e Tel Aviv dall’altro. È ancora presto per emanare una sentenza definitiva, sta di fatto però che il tanto auspicato vertice di Amman tra USA, Giordania, Autorità Nazionale Palestinese ed Egitto, una speranza per un cessate il fuoco immediato, è stato cancellato per volere di quegli stessi paesi arabi rimasti scottati dalle immagini provenienti da Gaza City.

Ciononostante, si continuerà a negoziare, questo è sicuro. Il rischio imminente è, ad oggi, un allargamento del conflitto al cosiddetto “fronte nord”, il sud del Libano controllato dagli Hezbollah.  Se ne sente spesso discutere, ma chi sono gli Hezbollah? Quale la loro storia e perché Israele e USA temono possano prendere parte attiva nel conflitto?

Bandiere di Hezbollah durante un saluto militare

Innanzitutto, bisogna tornare indietro agli anni ’80. L’Iran, roccaforte dello sciismo musulmano, nemico giurato dello Stato di Israele che ha definito come “un cancro maligno che va estirpato, nel bel mezzo della guerra civile libanese si insinua nella governance del paese fondando un partito armato musulmano sciita, Hezbollah. Dapprima come forza militare, Hezbollah diviene di anno in anno più influente nelle dinamiche politiche libanesi  fino a configurarsi come vero e proprio attore istituzionale. Così, Israele si trovò ad avere un nuovo nemico alle porte di casa, l’Iran uno sbocco sul mediterraneo orientale.

Da sempre Teheran rivendica un accesso al mare nostrum che la geografia non gli ha donato. E lo fa attraverso il finanziamento e il supporto politico-militare non solo di Hezbollah ma anche di Hamas e la Jihad Islamica che, guarda caso, controllano la striscia di Gaza, sul mediterraneo per l’appunto. Sono dunque due i motivi che spingono la Repubblica Islamica a finanziare questi attori locali. Uno più politico: l’odio senza se e senza ma per Israele. Ed uno più pragmatico: uno sbocco che gli permetta di controllare parte degli snodi commerciali del mediterraneo orientale.

Missili delle Forze Armate della Repubblica Islamica dell’Iran

Tuttavia, l’Iran oggi non è pronto ad affrontare uno scontro diretto con la potenza di fuoco israeliana appoggiata dagli americani. Due portaerei statunitensi sono state presto schierate nel mediterraneo orientale come deterrenti. Questo rappresenta un ulteriore segnale: Washington non lascerà che il conflitto si allarghi facilmente al sud del Libano e agli Hezbollah, nonostante la Repubblica Islamica possa contare sul supporto di un altro attore regionale, la Siria sciita del presidente Assad, da poco riabilitato presso la Lega Araba dopo la catastrofe della guerra civile a cui ha condannato il suo popolo. Milizie filo-iraniane appoggiano il regime siriano e non stupisce, dunque, come l’aviazione israeliana abbia bombardato in Siria depositi di munizioni, armi che avrebbero potuto essere potenzialmente inviate segretamente ad Hamas.

Attori regionali come Siria, Iran, Iraq e attori locali, più piccoli, come Hezbollah, Jihad Islamica, Hamas e gli Huthi (una fazione armata filo-iraniana yemenita) costituiscono per la Repubblica Islamica il cosiddetto “asse della resistenza”. Ma resistenza a cosa? Primo, all’ingombrante influenza americana nella regione medio-orientale. Secondo, all’esistenza stessa dello Stato d’Israele. E terzo, a quelli che vengono popolarmente chiamati gli Accordi di Abramo. Siglati sotto l’amministrazione Trump tra Israele, USA, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Bahrein sono nati per incentivare un riavvicinamento economico tra Stato ebraico e monarchie del Golfo, accordi imperniati sul pragmatismo e su una pura logica di profitto.

La portaerei di classe Ford della U.S. Navy USS Gerald R. Ford guida una formazione di navi durante le operazioni del 4 ottobre 2023 nel Mar Ionio. Seguono la portaerei della Marina italiana ITS Cavour, la nave comando classe Blue Ridge USS Mount Whitney

In primavera si sarebbe dovuto compiere un ulteriore passo avanti. I tempi erano maturi per una distensione tra Israele e uno degli attori più influenti dell’area, l’Arabia Saudita. Si parlava di un accordo mediato dagli USA che, in cambio del riconoscimento dello Stato ebraico, si sarebbero fatti carico della difesa di Riad, finanziando altresì lo sviluppo di un programma nucleare saudita per uso civile. Un disastro, una catastrofe questa. Uno dei paesi più importanti del Medio-Oriente, culla della religione islamica, che si appresta a riconoscere l’esistenza del nemico numero uno: Israele. Queste sono le voci che si inseguono a Teheran. La Repubblica Islamica teme ora di rimanere isolata e vedere ridimensionata la sua influenza nella regione.

L’accordo saudita-israeliano si inserisce tuttavia in una strategia più ampia e nasce da una consapevolezza: l’era degli ideali è terminata, si è aperta oggi la stagione del pragmatismo, anche grazie ad un cambio generazionale dei monarchi del golfo. La dura legge del mero profitto economico impone di far affari anche con uno tra gli attori più ricchi del Medio-Oriente. Un paese stabile, democratico e tecnologicamente avanzato, con delle riserve energetiche molto consistenti: Israele. E così, già dal 2020 EAU e Bahrein hanno visto lievitare i propri scambi commerciali con Tel Aviv, soprattutto sul fronte della difesa e nel settore energetico. Israele rappresenta per loro uno sbocco commerciale nel mediterraneo, come dimostrano gli investimenti emiratini sui porti di Eilat (che garantisce un controllo sulle rotte commerciali provenienti dal mar rosso) e Haifa. Di converso, Dubai vuole essere per lo Stato ebraico una via d’accesso al fiorente ed elefantiaco mercato asiatico.

Non solo, l’economia post-petrolio impone la ricerca di fonti energetiche alternative da parte di quei paesi che più di tutti si sono arricchiti con il fiorente business legato all’oro nero: le monarchie del golfo. Oggi si guarda al gas come fonte di transizione, e si da il caso che i due giacimenti più importanti si trovino proprio al largo delle coste israeliane, il Tamar e il Leviathan. Accordi di natura commerciale ed energetica hanno dunque spinto parte del mondo arabo, sunnita soprattutto, ad avvicinarsi strategicamente ad Israele, archiviando per un momento l’atavica questione palestinese. Gli interessi economici oggi impongono questo. D’altronde pochi mesi fa era stato presentato trionfalmente al G20 indiano il Corridoio economico India-EAU-Medio-Oriente-Europa.

Il progetto, promosso da Washington, intende rafforzare le infrastrutture energetiche, creare nuove reti portuali, ferroviarie ed elettriche tra l’India e l’Europa, passando per il Medio-Oriente. La via alternativa occidentale alla temuta Belt and Road Initiative (BRI) cinese dunque. Ma gli equilibri sono ora saltati e l’intero progetto deve essere messo in stand by. Coincidenze? Io non credo. Non è un caso come l’Iran, che appoggia nell’ombra Hamas, sia anche un alleato non solo di Pechino ma anche di Mosca. L’ennesima guerra di Gaza fa infatti gioco ad entrambe le potenze. Da una parte, distoglie l’attenzione delle opinioni pubbliche e risorse economiche dal fronte ucraino e da quello indo-pacifico, dall’altra mina il progetto che doveva interporsi alla BRI, il Corridoio indo-arabo. Per di più, la situazione non fa altro che accreditare agli occhi del “Sud Globale” Cina e Russia come i veri pacieri internazionali, mentre gli USA vengono ritenuti dei  meri guerrafondai, poco lucidi e minimamente obiettivi sul conflitto israelo-palestinese. Uno scontro che si sta configurando come Occidente-Israele contro l’“altro” mondo, guidato da Xi e Putin che si sono fatti portavoce degli interessi arabi nella regione (quando però in Cina le minoranze musulmano-turcofone vengono deportate in campi di rieducazione, ma questi sono dettagli).

Il presidente cinese Xi Jinping stringe le mani al presidente russo Vladimir Putin presso la Grande Sala del Popolo a Pechino, Cina, il 18 ottobre 2023. Putin si trova a Pechino per il terzo Belt and Road Forum for International Cooperation (BRF)

La grande assente si rivela ancora una volta l’Unione Europa che non riesce ad esprimere una visione comune. Mentre le alleanze si forgiano e si sfaldano, Bruxelles rimane a guardare, attonita, in balia degli eventi. Quella stessa Bruxelles che intrattiene forti legami energetici con il paese che più di tutti finanzia il governo di Hamas a Gaza, il Qatar. Se le istituzioni della striscia hanno retto in questi ultimi anni è soprattutto grazie ai finanziamenti qatariani. Doha si configura dunque come un importante giocatore nello scacchiere medio-orientale, unico paese del golfo a coltivare rapporti privilegiati sia con Hamas sia con gli occidentali e l’unico che potrebbe fare la differenza anche nella negoziazione per il rilascio degli ostaggi israeliani reclusi a Gaza.

Il presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi parla con l’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim bin Hamad Al Thani, e il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit, mentre partecipano al vertice di pace del Cairo tenutosi venerdì.

I leader di Hamas hanno stabilito il loro quartier generale proprio a Doha. Qui vivono in meravigliose ville mentre il popolo che rappresentano, gli interessi del quale dicono di portare avanti, si ammassa, affamato, nelle zone designate da parte delle forze israeliana per l’evacuazione nel sud di Gaza, aspettando un’invasione di terra che sembra non arrivare mai.

Nel frattempo, tutto è sospeso. La diplomazia abbisogna del suo tempo affinché produca qualche soluzione pratica. Bisognerà attendere che gli attori regionali e locali si allineino sui rispettivi calcoli economico-politici, guidati nell’ombra da USA, Cina e Russia. A Gaza però le bombe non si fermano. Cadono dal cielo come fossero stelle cadenti. Gli abitanti, sequestrati ormai da decenni dentro quella terra di nessuno, necessitano di aiuti umanitari. Ora e subito. Hanno bisogno di alternative valide, percorribili, di un progetto politico che possa dissuaderli dal prendere la scelta obbligata di vivere una vita all’ombra dell’integralismo di Hamas. Ora, però, più di ogni altra cosa c’è bisogno di umanità.

ABBIAMO UN'OFFERTA PER TE

€2 per 1 mese di Fortune

Oltre 100 articoli in anteprima di business ed economia ogni mese

Approfittane ora per ottenere in esclusiva:

Fortune è un marchio Fortune Media IP Limited usato sotto licenza.