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Non solo Milan, lo spettro del fair play finanziario

(di Nicola Sellitti) – Ora forse è meglio non sottovalutarlo. Meglio tenere i conti in ordine. Il Fair Play Finanziario, tanto discusso, anche preso in giro, nei primi tempi solo solletico per i top club indebitati, è davvero un pericolo. Dalla revoca dei titoli vinti all’esclusione dalle competizioni europee, con drammatiche conseguenze finanziarie. La prima vittima a cinque stelle è ovviamente il Milan, che ricorrerà in appello per la sanzione arrivata nelle scorse ore dall’Uefa, un anno senza Coppe europee per lo sforamento dei parametri dal 2014 alla scorsa annata, per 120 milioni di euro complessivi. Ma l’obiettivo di un giro di vite sulla salute finanziaria dei club europei – intento dichiarato del padre del Fair Play, l’ex numero uno dell’Uefa Michel Platini, per rientrare dei debiti totali, 1,7 miliardi di euro – era proprio questo, evitare gli indebitamenti, tenere a posto i bilanci, per un pallone più sostenibile.

Sono 17 le squadre, fino alla punizione imposta al Milan, che si sono viste negare l’accesso alle manifestazioni organizzate dall’Uefa. Si tratta dei casi più gravi in cui le società che non hanno saldato i debiti verso altri club, mettendo così a rischio le fondamenta dell’intero pacchetto calcio. Oppure, di mancato rispetto del settlement agreement, dei patteggiamenti. I primi provvedimenti sono arrivati quattro anni fa, avvolti da dubbi, silenzi, la convinzione che i pezzi grossi del sistema pallone non ne sarebbero stati neppure sfiorati. Dalla Stella Rossa Belgrado ai lituani dell’Ekranas, poi i romeni del Cluij e il Bursaspor, club turco con lo stadio a forma di serpente. E un anno più tardi sono arrivate sanzioni per Dinamo Mosca, Cska Sofia, altri club romeni, finlandesi, azeri.

Ma è con la punizione al Galatasaray nel marzo di due anni fa o del Dnipro (che aveva ricevuto prima un warning, un avvertimento sulla posizione debitoria), finalista di Europa League nel 2015, che i segnali dell’irrigidimento dell’Uefa sono divenuti evidenti. Gli avvisi stavano per finire. Nel 2017 il Partizan Belgrado si è visto escludere salvo poi essere riammesso dopo ricorso al Tas di Losanna. E poi ci sono i patteggiamenti, poco meno di 30 sinora. Nel 2014 si sono sedute al tavolo anche Manchester City e Paris Saint Germain (limite alle rose in Europa), l’anno successivo, tra le altre, anche Inter (limite in lista Champions League nella stagione al via e mercato in parità) e Roma, che in ogni sessione del mercato estivo infatti sono costrette a vendere, realizzare plusvalenze (anche pochi giorni fa, nell’affare Nainggolan ai nerazzurri), mostrare i bilanci all’Uefa, prima di investire.

Ma è dall’anno in corso, dal 1 giugno 2018, che i club tremano. E’ iniziata la fase due del FFP. Non più solo strumento di controllo ma una stretta fortissima su debiti, trasparenze delle proprietà, sostenibilità dei programmi di investimenti, con occhi sul calciomercato. Rigido, selettivo, spietato. Il Psg degli emiri che investiva pacchi di euro (oltre 1,2 miliardi in sette anni sul mercato) aggirando le norme, con lo sponsor legato alla proprietà che mascherava i debiti aveva lasciato il segno. Altro che proporzione tra incassi e spese, rispetto del valore di produzione e costi di esercizio, Neymar e Mbappè sono costati assieme 400 milioni di euro la scorsa estate. Ecco le motivazioni dell’inasprimento che ha portato alla punizione per il Milan. Ed è proprio il Psg che ora deve correre ai ripari, mettendo in cassa circa 60 milioni di euro – il flusso di cassa è cominciato con la cessione di Pastore alla Roma – entro il 30 giugno per coprire il disavanzo. Sennò saranno dolori anche in zona Torre Eiffel, non solo al Duomo.

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