L’Unione Europea può diventare una fortezza per proteggere i suoi cittadini e dare lezioni al resto del mondo? Pare di sì. L’approccio europeo nei confronti dei big data è sostanzialmente basato su due punti cardine. Prima di tutto privilegiando la cultura, l’individualismo e le differenze dei suoi cittadini, proteggendone la privacy. Il secondo aspetto è l’utilizzo, diremmo cautamente protezionistico, che fa del suo potere legale per spingere la competizione a sfavore dei grandi oligopolisti big data stranieri. Tenendo in mente questa duplice strategia, si può analizzare (come abbiamo fatto sul nuovo numero di Fortune Italia), il fil rouge che unisce la legge sul Gdpr passata nel 2018 e quella più recente sul Copyright.
Con il primo approccio si parte dalla vision, ben espressa dal Gdpr, che semplificando si potrebbe descrivere così: “tu cittadino hai diritto a possedere i tuoi dati e capire chi li utilizza e come”. L’evoluzione di questo concetto è la creazione di un approccio di interoperabilità. In questo caso sia il Gdpr che il tema copyright trovano un punto comune. Gli utenti devono essere in possesso dei propri dati e potersi muovere (e portarli con sé) da una piattaforma all’altra. In UK, ad esempio, si sta sperimentando un nuova piattaforma sociale e finanziaria chiamata open Banking, supportata dalla Fca (l’equivalente della Consob).
Il secondo approccio, la competizione, sembra strizzare l’occhio proprio alla nuova legge sul Copyright. È un dato di fatto che le piattaforme di big data abbiano valorizzato i contenuti terzi (autori indipendenti, media, editori) sfruttando il traffico di utenti da essi generato. Il traffico, una volta analizzato e trasformato in dati, ha generato, in alcuni casi, miliardi di dollari di pubblicità. A rischiare maggiormente sono proprio quelle piattaforme che hanno fatto della pubblicità online la loro principale fonte di guadagno: Facebook e Google.
La versione completa di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di giugno.
