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McKinsey: ecco cosa impedisce a 1 mln di donne di diventare manager

Altro che soffitto di cristallo. La carriera di una donna “inciampa” ben prima di poter arrivare alle stanze più in alto del grattacielo. Secondo una ricerca di McKinsey e Lean In, infatti, c’è un collo di bottiglia che impedisce alle donne di progredire sul posto di lavoro, e si trova all’ingresso di quello che in inglese si chiama C-suite, cioè il ruolo dirigenziale. Per ogni 100 uomini, solo 72 donne vengono promosse al primo step da manager: pertanto, le donne ricoprono solo il 38% dei posti dirigenziali di base; la maggior parte resta bloccata in ruoli entry-level e solo in poche arrivano a competere con gli uomini per posizioni “senior”.

“Finché non si aggiusta il primo gradino della scala, le donne faranno sempre fatica a raggiungere l’uguaglianza, se mai ci arriveranno” scrive il report “Women in the Workplace 2019”, arrivato 5 anni dopo la sua prima edizione, e realizzato da McKinsey & Company e dall’organizzazione Lean In, fondata dall’attuale direttore operativo di Facebook Sheryl Sandberg, dall’omonimo libro scritto dall’imprenditrice per spingere le donne a “farsi avanti” (lean in, appunto). Il campione preso in considerazione è di oltre 68 mila lavoratori in 329 grandi aziende (che impiegano totalmente 13 milioni di persone). Qualora si riuscisse a rompere l’argine che impedisce l’accesso di una donna al suo ruolo dirigenziale – calcola il report – nei prossimi cinque anni si avrebbe un milione di donne manager in più.

Dunque, il problema non è il soffitto di cristallo, anzi: secondo i dati, in America non ci sono mai state così tante donne ai ruoli dirigenziali come oggi. Sempre una minoranza, per carità: è donna il 21% dei top manager contro il 79% degli uomini. Ma questo non è il problema più grande. Secondo McKinsey e Lean In l’ostacolo è proprio all’entrata del mondo dirigenziale, che accoglie molti più uomini rispetto alle donne: un “trend” che poi si mantiene per tutti gli altri gradi. Ecco allora il problema: le presenze femminili diminuiscono proporzionalmente quanto più in alto si sale con le posizioni. “Il numero di donne scende a ogni livello successivo al primo – dice il co-founder di Leanin.org, Rachel Thomas – quindi anche se registriamo più manager donna ai livelli senior, la parità in generale è ancora lontanissima. Semplicemente, le donne che vanno avanti sono ancora troppo poche”.

Il gap nelle promozioni si allarga quando i ricercatori mettono sotto la lente di ingrandimento le donne latine e afroamericane: per ogni 100 uomini promossi a dirigenti, accedono solo 58 donne afroamericane e 68 latine. Del problema non c’è grande consapevolezza: chiedendo quale sia il più grande innesco alla parità di genere, solo 19% dei capi delle risorse umane risponde la promozione di donne al primo livello dirigenziale. Il report di McKinsey e Lean In suggerisce alcune soluzioni da adottare per bilanciare il gender gap: definire una quota per il numero di donne da promuovere per al primo livello di manager, far sì che chi si occupa delle assunzioni sia scevro da pregiudizi, stabilire un processo di assunzione e promozione chiaro e trasparente. Inoltre, è importante permettere alle donne di fare quelle esperienze di formazione che permettano loro di arrivare preparate a ricoprire fuori di alto profilo e responsabilità.

Colmare il gender gap nelle aziende non è solo giusto eticamente, ma è anche più redditizio sotto il profilo economico. Avere più donne significa avvalersi di talenti che oggi restano tagliati fuori semplicemente sulla base di criteri legati al genere. Secondo il Wall Street Journal, se nella forza lavoro statunitense ci fossero tante donne quanti uomini, si avrebbe un apporto di 4,3 trilioni di dollari all’economia americana da qui al 2025, con una maggiore stabilità finanziaria per molte famiglie. E molta più civiltà.

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