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Samuel Lo Gioco: Il vero smart working? Si misura per risultati

smart working

Ci sono parole diverse che indicano un significato comune, ci sono significati diversi che vengono indicati, a torto con le stesse parole. Il dibattito sullo smart working fa parte di questa seconda parte del discorso. Con una unica etichetta si confezionano cose molto diverse tra loro: il vecchio telelavoro, il visionario “agile working”, il più banale “home working”, il più impalpabile “remote working”. Tutto sotto il codice di “smart working”.

Non a caso si moltiplicano occasioni di dibattito e di confronto, anche per quell’incrocio inevitabile che lo “smart working”, qualunque cosa sia, produce con il mondo del welfare. E del welfare aziendale. E di quella ambita e non sempre raggiungibile “bilancia” tra vita e lavoro. Samuel Lo Gioco, un passato all’Ibm, un presente immerso nell’open innovation, ha organizzato e realizzato nel mese di maggio tre giorni di discussione pubblica, da “remoto” coinvolgendo Hr manager, consulenti del lavoro, psicologi, avvocati: lo “smart working village”.

La seconda edizione, dopo quella di un paio d’anni fa, avvenuta in presenza…

Ma sarà l’ultima. Non mi va di sclerotizzare gli appuntamenti. Sullo smart working c’è bisogno di una rivoluzione culturale, non di un rituale. La valorizzazione delle persone è il tema centrale per le aziende. E il processo di cambiamento in atto deve puntare sul lavoro intelligente, “agile”, per favorire il benessere di chi lavora, in un equilibrio positivo di vita-lavoro.

Smart working come strumento di welfare aziendale?

Anche il contrario. Se una persona sta bene ed è felice è più performante. Il welfare aziendale non si deve proporre di introdurre solo benefit, ma deve favorire il percorso di crescita delle persone che lavorano, anche a livello professionale, ma anche a livello umano. E qui sta l’importanza dei supporti psicologici, oltre che medici. La salute non è un benefit da erogare, ma una condizione da inseguire. Il welfare deve proporsi di favorire il benessere delle persone che lavorano.

Non rischia di descrivere un orizzonte che ancora non esiste? Oppure lei vede alcune aziende che stanno già percorrendo questa strada di innovazione profonda?

Io sono olivettiano. Ci vuole un approccio un po’ profetico per cambiare. Ma qualche caso di azienda che si sta muovendo in questa direzione c’è. Ho visto i casi di Wind 3, o di Almaviva. Cito solo due delle aziende che hanno partecipato con testimonianze e riflessioni al nostro evento. In questi casi diventa chiarissimo che il vero “smart working” – ma io preferisco parlare di “lavoro intelligente” – è quello che non si prefigge obiettivi, ma si misura per risultati. In questo orizzonte si devono coinvolgere tutte le funzioni manageriali e tutti i presidi del lavoro: legale, sindacale, formativo.

Sento l’eco di chi propone la “felicità” come orizzonte del lavoro in azienda, fino al punto da definire un ruolo manageriale dedicato, il Cho, chief happinness officer.

Misurare la felicità sul posto di lavoro non è cosa da poco. Il lavoro intelligente può favorire la felicità; certamente aiuta la sostenibilità, che è un “must” del nostro tempo. C’è chi ipotizza il ripopolamento dei Borghi italiani, con l’uso delle tecnologie che consentono un lavoro da remoto, che diventa un lavoro veramente intelligente, perché svolto da persone felici di farlo. Ci sono aziende che ci credono e investono. Con noi sono due start up tecnologiche, che si propongono di sviluppare software capaci di misurare tutto quello che ho detto. La tecnologia è un alleato essenziale della rivoluzione del lavoro intelligente.

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