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Imprese, “Ci hanno scippato il modello Olivetti”

Ci hanno scippato Olivetti. E il suo modello di impresa “umanizzata”. Stefano Bartolini, docente di Economia politica all’università di Siena, ne è convinto, quando si parla della centralità del capitale umano e del nuovo welfare aziendale che pone al centro il benessere di chi lavora. “Oggi ci capita di guardare agli esempi di Google e di Pixar, o di altre multinazionali anglosassoni, per indicare un virtuoso approccio di relazione tra impresa e collaboratori. Ma l’evoluzione dal personale alle persone è avvenuta nell’intuizione di Adriano Olivetti. Peccato che poche imprese nel nostro mondo l’abbiano compreso. Oggi qualche segnale di novità si sta affermando e la centralità delle persone non è uno slogan, ma l’inizio di una nuova comprensione dei problemi dell’economia e della vita in azienda”.

Bartolini ha pubblicato in questi giorni il suo “Ecologia della felicità” per i tipi di Aboca Edizioni (l’azienda farmaceutica di Sansepolcro ha avviato una fortunata collana di editoria libraria, rivolta all’equilibrio tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale). Nell’orizzonte di una visione di “economia della felicità”, che si pone i problemi della sostenibilità e quindi diventa “ecologia”, Bartolini si sofferma sull’infelicità prodotta dall’attuale sistema di sviluppo. Al punto da far echeggiare le tesi della “decrescita felice”?

“Assolutamente no. Non mi piace la parola decrescita. La questione è capire che cosa qualifica il necessario progresso – aggiunge Bartolini – la questione centrale credo che sia una sola: la qualità della vita condivisa. Denaro e consumi non possono essere l’unico riferimento per giudicare il progresso e la qualità della vita- C’è una questione legata alla felicità”. Alcune multinazionali hanno creato una figura manageriale ad hoc: il chief happiness officer. Il Cho è una fuga esoterica o ideologica, o ha un senso? “Il problema della felicità non è banale e riguarda ovviamente anche il mondo del lavoro” risponde Bartolini, che cita il suo libro: “Secondo Henry Mintzberg, definito dal Financial Times “il più grande esperto di management a livello mondiale” c’è un’altra crisi di proporzioni ben maggiori: il declino del senso di comunità nelle imprese, cioè del senso della gente di appartenere e prendersi cura di qualcosa che è più grande di loro. Aggiunge che decenni di pessimo management hanno gonfiato l’importanza del top management e ridotto la gente a merce fungibile. Il risultato sono i comportamenti sconsiderati e insensati che hanno messo l’economia mondiale in ginocchio. L’efficacia manageriale delle imprese americane è minacciata da un eccesso di gerarchia, è l’isolamento delle persone in posizione di leader che mina il senso di comunità. Rimedi? Secondo Mintzberg le imprese devono ricoinvolgere la loro gente. […] il modo per ricostruire la comunità è smetterla con quelle pratiche che la minano, come trattare gli esseri umani come risorse umane”.

Il benessere in azienda, premessa e obiettivo di ogni piano di welfare, deve essere la leva di ogni leadership illuminata. Se le scuole di management “hanno costruito manager che sembrava avessero l’obiettivo di essere una carogna, di trattare male le persone – continua Bartolini – è pur vero che oggi si sta riaffermando la logica della leadership gentile”. La questione centrale del benessere in azienda è il recupero della dimensione relazionale. “La solitudine è il problema di massa del nostro tempo, anche in azienda, anche nei luoghi di lavoro – aggiunge Bartolini – perché sono venute meno le relazioni. I lavoratori incorporano abilità e competenze, ma la tecnologia ha perso di importanza. Nelle organizzazioni del lavoro vince chi sa connettere le persone in progetti condivisi. La leva è la relazione, prima ancora della competenza. La varietà delle persone, dei loro bisogni, delle loro inclinazioni, delle loro capacità è la ricchezza delle imprese. A condizione che si sappiano promuovere organizzazioni capaci di valorizzare la componente relazionale”.

“Il tipo di cultura manageriale criticato da Mintzberg si riflette nell’organizzazione del lavoro, che si è evoluta negli ultimi decenni in una direzione che mette in tensione le relazioni nelle imprese: più pressione, più stress, più incentivi, più conflitti, più controlli, più competizione, ecc. Oltre a portare molte imprese al collasso, questa evoluzione organizzativa è largamente responsabile della crisi del benessere sul lavoro che stiamo vivendo” aggiunge Bartolini. Umanizzare le imprese è la condizione per non demotivare i lavoratori. Se le persone non si sentono al centro dell’organizzazione rischiano di far prevalere il disimpegno. E questo produce costi aggiuntivi, quelli del controllo: “Negli Stati Uniti la percentuale di supervisori sul lavoro raggiunge addirittura il 15% della forza-lavoro e in Gran Bretagna il 14%. Le spese per il controllo dei lavoratori sono lo specchio contabile del disimpegno sul lavoro”. Più coinvolgimento, più benessere, più felicità nel lavoro, meno controlli e meno spese per la produzione: la ricetta è semplice. Il nuovo welfare nel dopo-Covid parte da qui.

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