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La partita a scacchi sui costi della rete

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La transizione digitale è ormai assurta a principale driver di trasformazione globale e, dopo gli eventi degli ultimi due anni, le principali istituzioni nazionali ed europee ne hanno fatto il pilastro delle politiche di sostenibilità e crescita del prossimo decennio. Ora però, proprio l’indispensabile e incessante sviluppo delle infrastrutture di telecomunicazione, crea i presupposti per uno scontro sui costi di sviluppo che vedrà coinvolti i diversi attori del mercato.

Lo sviluppo registrato in questi anni, difatti, ha richiesto una enorme mole di investimenti infrastrutturali, come emerso dal rapporto dell’European Telecommunications Network Operators, comportando per le telco europee uno sforzo di 500 mld di euro solo negli ultimi 10 anni tra reti fisse e mobili che ha permesso di affrontare la sfida pandemica, lo sviluppo di nuove forme di business, nonché di nuovi servizi e forme di intrattenimento a disposizione della popolazione (streaming, gaming, social, …) offerti da pochi grandi providers.

Secondo un recente studio realizzato da Axon Partners per Etno, tali servizi offerti dalle grandi società e piattaforme tecnologiche denominate Over The Top (OTT) quali Amazon, Apple, Google, Meta, Microsoft, Netflix ecc… hanno determinato un incremento del 55% di traffico dati sulla rete che, non solo annulla parte degli investimenti apportati per il potenziamento della rete ma, secondo Frontier Economics, gravano sulle Telco per un costo compreso tra 36 e 40 miliardi di euro all’anno.

Un sistema che gli operatori di rete ritengono, ormai, insostenibile soprattutto alla luce degli ulteriori investimenti previsti dai vari programmi di ripresa nazionali ed europei, che puntano sullo sviluppo di una più vasta copertura territoriale e standard di rete sempre maggiori.  Miglioramenti che, naturalmente, vengono sfruttati soprattutto dalle Big Tech che, senza dover sostenerne i costi, possono ulteriormente incrementare i propri servizi e, quindi, i profitti.

Condivisione dei costi, sfruttamento della rete, ritorno sugli investimenti. Sono questi i punti che su cui si incentrerà il confronto, in una specie di partita a scacchi in simultanea, in cui i player agiscono su più tavoli sia a livello europeo che nazionale.

Un confronto che si prospetta serrato, con le istituzioni europee che si sono ampiamente schierate su una posizione di “equa distribuzione dei costi” come dichiarato il 5 maggio da Margrethe Vestager – Commissaria per la oncorrenza e vicepresidente esecutiva per Europe Fit for the Digital Age: “Penso che ci sia una questione che dobbiamo considerare con molta attenzione e questa è la questione del giusto contributo alle reti di telecomunicazioni”, aggiungendo che “ci sono attori che generano molto traffico che poi abilita il loro business ma che non hanno effettivamente contribuito ad abilitare quel traffico”.

Meno di una settimana dopo, le dichiarazioni di Verstager sono state confermate dalla posizione del Consiglio Europeo sul “Path to the Digital Decade” in cui si può leggere: “tutti gli attori del mercato che beneficiano della trasformazione digitale” dovrebbero assumersi le proprie responsabilità sociali e “fornire un contributo equo e proporzionato ai costi dei beni pubblici, dei servizi e delle infrastrutture”.

La reazione delle OTT non si è fatta attendere. In un incontro sul tema, Thomas Volmer – Global Director of Content Delivery Policy di Netflix – ha dichiarato: “Una simile previsione comporterebbe la necessità di negoziare con ogni singolo operatore di ogni Stato determinando, difatti, una potenziale barriera all’entrata nel mercato”. Ha poi aggiunto che, de facto, i content provider contribuiscono per quanto di loro competenza “non direttamente sulla rete, ma sullo sviluppo di codex e algoritmi che permettono di assicurare coniugando la qualità del servizio con un basso consumo di Mb/s, quindi su un uso efficiente dell’infrastruttura”.

Il braccio di ferro è appena iniziato con una posta in gioco altissima anche per le ricadute economiche tenuto conto del peso degli attori coinvolti: la capitalizzazione delle telco è calcolata in 240 miliardi di euro, quella delle OTT si aggira intorno ai 7 trilioni di euro.

E in Italia? Livello differente ma medesimo problema. E vede coinvolti istituzioni e telco con importanti ripercussioni sullo stato di avanzamento del PNRR.

Basti pensare al Memorandum of Understanding per la rete Unica(MoU), siglato poco più di una settimana fa da Tim, Cassa Depositi e Prestiti, Macquarie e Kkr che “nasce con il fine di accelerare la diffusione della fibra ottica in tutta Italia tramite un operatore unico, rendere più efficiente e capillare la connessione a internet”. Vero, ma qualora andasse in porto senza grandi scossoni, permetterà di evitare la duplicazione degli investimenti che tradotto significa condivisione dei rischi e dei costi.

Un “se” non da poco, tenuto conto che il MoU non ha natura vincolante per le parti e, come dichiarato da Labriola, il processo dovrebbe chiudersi in 12-18 mesi. Un tempo che, naturalmente, potrebbe risentire degli effetti della contemporanea partita europea con il programma “Path to the Digital Decade” che potrebbe cambiare l’assetto stesso del mercato.

Più complessa, invece, la questione connessa allo sviluppo del 5G che, da un lato vede ancora aperta la questione sull’assegnazione delle frequenze assegnate nel 2018 e per cui Tim, Vodafone, Iliad e Wind-3 hanno chiesto al Mise e al Mef di rateizzare l’importo relativo alla maxi-rata da 4,8 miliardi di euro; dall’altro ha visto andare deserta l’asta per la creazione di nuove infrastrutture nelle aree bianche, sebbene fosse previsto un finanziamento pubblico di 974 mln di euro (fondi Pnrr) a copertura di quasi il 90% degli investimenti.

Su quest’ultimo punto, il risultato è riconducibile a due fattori:

– la clausola dell’obbligo di accesso che obbligava l’operatore a garantire l’utilizzo dell’infrastruttura a canone concordato a tutti gli operatori del mercato (tipica situazione da “dilemma del prigioniero”, nessuno si assume il 100% del rischio se pensa di poter fare “free riding);

– la collocazione estremamente periferica delle aree previste dal bando che aumentava i rischi di penali riducendo la certezza del ritorno di investimento.

Che ruolo giocano i finanziamenti stanziati o previsti dalle istituzioni, sia a livello nazionale che europeo, in tale contesto? La risposta fornita, in merito, da Ramon Fernandez – Vice Ceo di Orange – è stata che i fondi stanziati sono percepiti dagli operatori come “noccioline”, se paragonati alla mole di investimenti e rischi connessi all’attività di sviluppo della rete.

Insomma, la partita è solo agli inizi.

 

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