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Giornata della donna, Mazzucco: cambiare la società per colmare il gender gap

L’8 marzo si celebra la Giornata internazionale della donna. Qual è oggi il senso di questa ricorrenza? Quanto manca per colmare il gender gap in Italia? Abbiamo chiesto alla scrittrice Melania Mazzucco (nella foto in evidenza. Credits: Isabella De Maddalena) una riflessione sui valori dell’8 marzo e su quanta strada c’è ancora da percorrere per raggiungere in questo Paese una piena ed autentica parità di genere.

Ha ancora senso la Giornata dell’8 marzo in un Paese in cui la maggior parte delle posizioni apicali, pubbliche e private, è tuttora riservata agli uomini?

Forse ha senso proprio per questo. In passato questa giornata era il momento in cui le donne rivendicavano la loro presenza, i loro diritti. È una battaglia che si deve continuare a fare. La Giornata internazionale della donna serve a parlare della situazione oggettiva della donna nel nostro Paese. È una situazione che può trarre in inganno. Da una parte, dobbiamo rilevare che negli ultimi anni moltissime donne sono arrivate agli apici della politica, della magistratura e di altre istituzioni. Però si tratta ancora di esempi isolati. La giornata di oggi è un’occasione per riflettere su tutto questo, sul perché siamo ancora al punto di dover celebrare degli esempi isolati dopo tutto quello che è accaduto in questo Paese negli ultimi cinquant’anni.

I casi isolati di donne al vertice di istituzioni importanti sono quindi delle foglie di fico, o possiamo leggerli come sintomi di un cambiamento, per quanto lento e farraginoso?

Le nomine che provengono dall’alto o da élite ristrette forse possono servire a mascherare una situazione reale ancora lontana dall’uguaglianza. Se parliamo però di movimenti dal basso, di elezioni, come quella del capo del Governo o del capo dell’opposizione, votate da milioni di elettori, credo possano essere interpretate come il segnale di un cambiamento. Significa che quando il cittadino si reca alle urne il genere non è più un deterrente, ma si vota e si sceglie la personalità. Da questo punto di vista credo sia un segnale positivo. 

Perché alla donna si chiede ancora di scegliere fra lavoro e famiglia?

Perché non stiamo cambiando la società. Ora che le donne occupano finalmente dei ruoli chiave in alcune istituzioni locali e nazionali, dovrebbero incominciare a trasformare le strutture della società. Altrimenti parlare di politiche per la famiglia, limitandosi a elargire assegni o sussidi, è qualcosa di completamente inutile. Se non si cambia la società, non lamentiamoci poi della nostra denatalità. L’Italia è un Paese che sfavorisce in ogni modo la natalità, rendendo la vita delle donne impossibile e ponendole dinanzi a scelte che annientano la loro professionalità e formazione.

Dal punto di vista della formazione, abbiamo registrato dei passi avanti importanti.

Sì, oggi l’accesso alla formazione nel nostro Paese è paritario, anche se dobbiamo recuperare e includere ancora le giovani italiane nate qui da genitori stranieri. Poi però bisogna mettere una lavoratrice, che si è formata e ha ottenuto delle qualifiche importanti, nella condizione di non dover scegliere tra famiglia e lavoro, com’è avvenuto a moltissime donne delle generazioni precedenti. Trovo sempre molto ipocrita affermare di promuovere la natalità senza intervenire sulle strutture sociali del Paese. Non si tratta peraltro di discorsi astratti; sono politiche molto concrete che in alcune realtà sono state anche attuate. Bisogna essere propositivi per cambiare le cose. Altrimenti continueremo a celebrare le eccellenze, ma non saremo in grado di garantire a tutte le altre la dignità personale e professionale che meritano.

Forse cambiamento culturale e materiale dovrebbero andare di pari passo.

Finora i due aspetti sono stati trattati in modo separato. Si pensa che intervenire sulla struttura della società sia un discorso diverso dal cambiamento culturale, in realtà sono due discorsi da portare avanti parallelamente. Finché non comprendiamo che si tratta di una necessità sociale e culturale per il progresso del nostro Paese, non riusciremo ad intraprendere questo cammino in modo soddisfacente. 

Oggi questa celebrazione sembra un po’ svuotata del suo senso originario, è d’accordo?

Credo che questa Giornata vada ripensata. Io la ricordo come una festa femminile e femminista. Ora potrebbe diventare una giornata propositiva, per interrogarci cioè su cosa possiamo fare concretamente da qui al prossimo 8 marzo. Forse avrebbe più senso chiedere alla società di fare qualcosa di concreto. 

Che cosa le piace dell’odierno movimento femminista?

Ho apprezzato come sia riuscito a porre la centralità della questione al mondo intero. Oggi c’è molta più sensibilità su certi temi rispetto al passato, quando restavano confinati in una parte abbastanza esigua della società. Adesso sento di poter dire che c’è una sensibilità comune e che alcuni temi sono stati posti, come il Me Too. In Italia non ha scatenato per fortuna i fanatismi che si sono verificati altrove; però nello stesso tempo un movimento collettivo così grande impone a tutti una riflessione. E questo i nuovi femminismi sono riusciti a farlo. 

E poi ci sono le donne afghane, iraniane e di tutti quei Paesi in cui sulla parità di genere siamo ancora all’anno zero. 

A queste donne va tutta la mia vicinanza ed ammirazione. C’è poi da fare una riflessione: che cosa possiamo fare noi di concreto? Credo che dovremmo tenere accesa la luce su di loro, su ciò che stanno facendo con enorme coraggio. Dovremmo aiutare le rifugiate che sono venute qui in cerca di libertà e in molti casi per garantirsi la sopravvivenza. Sensibilizzare chi ci governa spingendoli a mettere in campo, laddove possibile, azioni concrete. Dovremmo insegnare alle ragazze a non dare per scontate le conquiste dei diritti, che vanno sempre difese e protette. Nulla è dato per sempre. E infine, mostrare solidarietà e appoggio a queste donne eroiche che stanno resistendo pagando con la torture e a volte con la vita.

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