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Atlante geopolitico, Indo-Pacifico: una guerra fredda atipica

Foto con i tre presidenti: March 13, 2023, San Diego, California, USA: President Joe Biden, center, talks about a new AUKUS partnership with Australian Prime Minister Anthony Albanese, left, and British Prime Minister Rishi Sunak at Naval Base Point Loma

Si respira un’aria di tempesta. Fregate militari russe avvistate nelle acque taiwanesi la settimana appena passata. USA e Cina che fanno a gare per inglobare nella loro sfera di influenza quanti più Stati insulari del Pacifico possibile. Esercitazioni militari congiunte sempre più frequenti. Una continua escalation nell’area indo-pacifica in una dinamica da vera e propria guerra fredda: Pechino da una parte, Washington dall’altra. Con una sola grande differenza: la strettissima interdipendenza economico-commerciale tra le due rivali. Diversamente dai legami economici pressoché inesistenti che intercorrevano al tempo tra l’URSS e gli USA, americani e cinesi non sono mai stati così vincolati, e questo potrebbe essere un bene. 

È un pericoloso risiko mondiale quello a cui stiamo assistendo. Le pedine dello scacchiere internazionale hanno cominciato a posizionarsi. Chi in maniera molto netta, chi in modo più ambiguo. Molti analisti concordano nel dire che una guerra nell’Indo-pacifico non è solo possibile, ma molto probabile. Altri, al contrario, sono convinti che la tenuta dell’economia globale sia troppo importante. Il nostro benessere economico è infatti legato indissolubilmente alla stabilità dell’indo-pacifico, che ci piaccia o no. La nostra economia fortemente globalizzata vive di scambi commerciali e le produzioni sono segmentate e realizzate in diverse parti del mondo per risparmiare sui costi e aumentare i profitti. E proprio nell’Indo-pacifico, che comprende il 50% di tutto il globo terracqueo, come viene oggi chiamato dai più, si snodano le più importanti rotte commerciali del pianeta. Dai beni di consumo, ai prodotti industriali, dai semi-lavorati al petrolio e il gas: tutto questo transita sulle rotte tra e verso l’Oceano pacifico e quello indiano. 

Già Temistocle, artefice della potenza navale ateniese tra il 400 e il 500 a.C., comprese come il dominio sui mari garantisse un potere indiscriminato sul mondo allora conosciuto. Una logica fatta propria dalla Gran Bretagna. I britannici mai avrebbero potuto costruire il loro impero così esteso senza il controllo degli oceani da parte della loro infallibile flotta. Dopo la seconda guerra mondiale e il conseguente declino della potenza britannica, tuttavia, il testimone passò agli americani che sancirono la loro egemonia sugli oceani fino ai giorni nostri. Oggi, il potere è cambiato. La Cina, fatta propria la lezione della storia, ha costruito la flotta più numerosa al mondo ed esercita un indiscutibile potere economico-commerciale, abbracciando in una morsa tutti i partner dell’area. 

E così, da una parte gli americani tentano di allineare nel Pacifico quanti più Stati possibili, cercando di colmare quella distanza geografica immensa che separa le loro coste dal potenziale teatro di guerra. Ambiscono a posizionare diversi asset strategici diffusi nell’Oceano in modo da poter mobilitare all’occorrenza una forza militare agile e tempestiva, meno vulnerabile agli attacchi missilistici cinesi. Il fine ultimo: la deterrenza. Dimostrare quanto possa essere veloce l’azione militare statunitense e dei suoi alleati se la Cina dovesse invadere Taiwan, scoraggiando il Dragone dal fare il passo più lungo della gamba.

Ecco perché si è quest’anno rafforzata la presenza e la cooperazione militare tra USA, Gran Bretagna e Australia, sancita dall’alleanza AUKUS. In base agli accordi, l’Australia verrà rifornita di almeno otto sottomarini nucleari entro il 2040, più potenti, in grado di viaggiare più a largo e di lanciare missili a lunga gittata. Seguendo la strategia del Dipartimento della Difesa americana, il mese scorso il sottosegretario Blinken ha concluso un accordo di sicurezza con la Papua Nuova Guinea, incrementando notevolmente la presenza militare americana anche sulla base dell’isola di Guam, strategica per colpire la Cina. Palau e la Micronesia hanno invece sottoscritto con gli americani un accordo di libera associazione. E ancora, le isole Marshall hanno garantito a Washington l’utilizzo esclusivo delle loro basi militari. 

Foto di un'isola artificiale cinese.
Foto di un’isola artificiale cinese.

Furbi gli americani. Ma anche Pechino non si fa parlar dietro, anzi. Ha sottoscritto un accordo di sicurezza con le Isole Salomone, dove è stata prontamente aperta anche un’Ambasciata statunitense. Ad una mossa ne segue un’altra. Ecco a voi la logica della deterrenza. 

Il Dragone ha altresì sfidato la natura, costruendo ben sette isole artificiali nel mar Cinese meridionale per meglio presidiarlo; un affronto per paesi come Vietnam, Filippine, Taiwan, e Malaysia. Le Filippine, storicamente alleate degli USA, hanno assicurato a Washington l’accesso a tre basi militari. Una in particolare, quella di Luzon, si trova in prossimità di Taiwan. Il presidente filippino Marcos ha chiaramente fatto una scelta netta: star dalla parte degli USA.

Ciononostante, molti altri piccoli Stati insulari del Pacifico rimangono su posizioni ambigue. Estranei ad un tipo di mentalità da guerra fredda, accolgono entrambe le rivali, sfruttandole al massimo. Gli USA come garanti di sicurezza e promotori di sviluppo sociale; La Cina come fonte di investimenti e partner commerciale privilegiata. L’incredibile appeal che Pechino esercita attraverso la sua Nuova via della seta, un insieme di progetti finalizzati alla realizzazione e al potenziamento di tutte le più importanti infrastrutture commerciali, rappresenta la minaccia più pericolosa per gli USA. La falla più grande nel piano di Washington. Anche la stessa Canberra teme rappresaglie commerciali da parte del Dragone, il suo primo partner commerciale. Una cospicua dose di finanziamenti cinesi a tassi di interesse agevolati e regole meno stringenti in materia di diritti umani farebbero gola a chiunque. Ecco perché gli USA hanno tentato un’alternativa. Risvegliare la dormiente alleanza Quad tra Australia, India e Giappone con l’obiettivo di fornire un’alternativa economica alla Via della seta cinese. Fin adesso con scarsi risultati. 

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L’ultimo pezzo del puzzle mancante: l’Oceano Indiano. Oltre ai meravigliosi atolli maldiviani, sulle sue coste si concentra e vivono rispettivamente più del 12% del PIL mondiali e 2,6 miliardi di persone. Al suo interno custodisce i tre stretti più importanti al mondo: Hormuz, dove transitano i 2/5 del petrolio globale, Bab Al Mandab, da dove si accede al Mar Rosso e, attraverso il canale di Suez, nel Mediterraneo. Uno stretto essenziale per commercializzare con l’Unione Europea, un mercato da ben 500 milioni di abitanti, benestanti, consumisti e incontentabili. Accanto allo stretto, il Gibuti, l’unico paese estero nel quale Pechino ha stabilito una sua base militare. Sarà un caso? Niente affatto, visto che la maggior parte dei commerci tra Europa e Asia passa da quello stretto. Ultimo, ma non per importanza, lo stretto di Malacca. Largo solamente 2,7 Km, pensate che qui vi transitano 1/5 dell’intero commercio mondiale e i 4/5 del petrolio scambiato. Lasciare liberi e aperti gli stretti conviene a tutti. Ecco perché proprio nell’Oceano Indiano si registrano tiepide collaborazioni tra americani e cinesi per il monitoraggio dei loro accessi, nonostante le continue esercitazioni congiunte tra Cina, Russia ed Iran da una parte; USA, Australia e Gran Bretagna dall’altra. 

Dunque, dalle esercitazioni militari si passerà mai alla prova dei fatti? Difficile rispondere. Bisogna chiedersi se, in una società come quella di oggi, conti di più la stabilità economica o il cinico realismo delle relazioni internazionali. È una guerra fredda stravagante questa, che rispecchia pienamente i nostri tempi. Tempi in cui il capitalismo ha fatto della logica del profitto l’unica vera ragione di vita. Profitto, sviluppo, guadagno. La Cina se ne è fatta carico e non so fin dove si spingerebbe, mettendo a repentaglio il suo intero impero economico. E se anche la guerra dovesse scoppiare, un’altra domanda che lascio aperta è la seguente: quanti e quali Stati dalle parole passeranno ai fatti? Mi spiego meglio. Siamo sicuri che gli alleati, di entrambe le parti, scenderanno in guerra per difendere gli interessi economici e la volontà di potenza del “duopolio” sino-americano? Chissà… 

(Nella foto in evidenza del 13 marzo 2023 il presidente Usa Joe Biden con il primo ministro australiano Anthony Albanese e il primo ministro Uk Rishi Sunak nella Naval Base Point Loma. Photo Credit: © Mark Alfred/ZUMA Press Wire)

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