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Continuous learning, ogni luogo di lavoro è una palestra di competenze

Il nostro studio di registrazione sarà la città”. È l’inizio di “Begin Again”: Keira Knightley e Mark Ruffalo incidono la loro musica all’aperto, tra i mille angoli di New York, lasciando che l’anima di ogni luogo contribuisca all’album con il proprio sound unico e irripetibile. A cosa serve chiudersi in uno studio di registrazione se là fuori c’è un mondo di suoni e di opportunità?

La tradizionale equazione “luogo=funzione” è scardinata nel profondo. Se il pattern della persona è il vero driver della società attuale, ai sacri templi – mete di pellegrinaggi – si contrappone oggi l’esperienza diffusa. In primis, quella che riguarda la formazione. Pasolini amava parlare del luogo come di un educatore fondamentale, non soltanto per chi è in età scolare, ma per chiunque lo abiti. Su questo tema, e sul modo in cui si trasforma il concetto di continuous learning nel mondo aziendale, ho voluto coinvolgere Fabrizio Rauso, Executive advisor con una lunga esperienza nazionale ed internazionale di direzione nelle risorse umane e nella trasformazione digitale.

Può lo spazio essere palestra di competenze? In che modo spazi diffusi in angoli diversi della città possono offrire stimoli e contenuti di valore, che si integrano in un percorso di crescita unitario e personale? “La risposta – commenta Fabrizio – passa attraverso due elementi di fondo: l’esperienza e la relazione. Lo spazio da questo punto di vista è abilitatore di entrambi a patto che non sia uno spazio passivo, ma che invece sia pensato e realizzato a partire dalle emozioni e dalle esperienze attese delle persone che lo vivranno”. Parliamo di adulti e professionisti, eppure l’idea montessoriana di un’educazione che è prima di tutto emozione si conferma in tutta la sua attualità.

“Il tema del continuous learning – precisa Fabrizio – è innanzitutto un tema di engagement: c’è una dimensione di consapevolezza e di curiosità verso l’altro e verso gli altri che è condizione necessaria per qualsiasi percorso di apprendimento. Ed è evidente che riguardi il rapporto con i colleghi, la disponibilità degli strumenti, la capacità di un’azienda di mettere in circolo l’informazione e renderla dimensione condivisa e generativa. Nella mia esperienza ho toccato con mano quanto lo spazio configurabile sia uno strumento potentissimo da questo punto di vista. Un ambiente che è in grado di trasformarsi per ospitare e stimolare al meglio quelle attività di learning by doing o di semplice relazione che spontaneamente fioriscono sul luogo di lavoro. Lo spazio come facilitatore e non come limite”.

In questi anni, in effetti, la domanda di ripensare gli spazi, sia nel privato che nel pubblico, è aumentata drasticamente, intrecciando almeno tre grandi direttrici: l’ottimizzazione nella gestione, con un impatto sostanziale sui costi fissi che liberano risorse da investire in qualità della vita; i parametri ESG che spingono le aziende ad una presa di coscienza sui grandi temi della sostenibilità e che richiedono una riscrittura degli asset e del loro utilizzo; la valorizzazione del patrimonio immobiliare, in un’epoca in cui la presenza fisica diminuisce a fronte di una maggiore richiesta di diversificazione dell’esperienza.

Prima della pandemia Gallup rendeva noto che in Italia la soddisfazione media delle persone d’azienda per i propri luoghi di lavoro era di appena il 5%. Oggi questo dato è cresciuto di alcuni punti percentuali – ed è un segnale positivo – ma lo scenario dimostra che al ripensamento degli spazi va aggiunta una soluzione di distribuzione territoriale, di integrazione di touchpoint distanti ma potenzialmente connessi. “La formazione di una persona d’azienda va pensata come un viaggio, un percorso fatto di tappe diverse, momenti diversi e in definitiva di luoghi diversi. Certamente un ufficio deve garantire una differenziazione di ambienti e una trasformazione modulare dei propri spazi, ma è del tutto evidente che se allarghiamo lo sguardo al di fuori del singolo edificio e guardiamo la meravigliosa e incredibile offerta che c’è sul territorio, ci rendiamo conto che la risposta è là fuori”.

Da questo punto di vista, l’idea di un hubquarter che sostituisca il vecchio headquarter è una vera rivoluzione: pensare che ogni persona possa avere a disposizione un palinsesto di luoghi e di comunità diverse a seconda delle proprie esigenze e che tutto questo si inserisca all’interno della normale esperienza lavorativa quotidiana è una soluzione che anticipa un bisogno sotterraneo e molto sentito: quello di rendere l’individuo davvero protagonista del proprio viaggio di apprendimento. “Perché ciò avvenga all’interno di una dimensione di unitarietà del purpose aziendale – precisa Fabrizio – deve essere l’azienda stessa ad abilitare e proporre questo tipo di modello distribuito, integrando soluzioni fisiche e digitali, ponendo attenzione a connettere non tanto spazi tra loro, ma territori, esperienze e, in definitiva, persone. Torniamo sempre lì: le persone sono al centro”.

Secondo gli ultimi dati presentati dall’Osservatorio nazionale dei luoghi di lavoro, promosso dalla Fondazione venture thinking, l’86% delle aziende si dice disposto ad investire su soluzioni di lavoro distribuito. Il caso di Poste Italiane, con il progetto “Spazi per l’Italia”, traccia un segno, da questo punto di vista. 250 uffici – aperti a tutti per apprendere e lavorare – distribuiti su tutto il territorio italiano che, a partire da quest’anno, cambieranno radicalmente il proprio assetto, diventando hub territoriali interconnessi e dando vita alla rete di luoghi di lavoro più grande d’Europa.

Possiamo vedere, in questi siti, altrettante palestre di formazione e di relazione per le persone d’azienda che avranno modo di accedervi, restituendo al concetto di continuous learning un’accezione di viaggio che non è più solo metaforica ma che diventa reale ed effettiva anche nella sua fisicità. Goethe, nel suo ‘Viaggio in Italia’, ci racconta l’intreccio meraviglioso tra saperi e bellezza, tra competenze ed esperienza che il nostro Paese è in grado di offrire. “Esiste già una piattaforma digitale in grado di rendere possibile l’accesso e la conoscenza dei diversi luoghi, dando visibilità delle persone che li abitano e degli eventi formativi che ospitano, in maniera da rafforzare le relazioni e l’apprendimento continuo. Dunque il punto non è il come – conclude Fabrizio Rauso – quanto il perché. Se non mettiamo a fuoco le ragioni che sostanziano la centralità della formazione delle persone, rischiamo di smarrire il senso di cui questa epoca si fa portatrice”.

*Daniele Di Fausto è il Ceo di eFM.

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