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Capizucchi, il vino del Divino Amore

Venticinque ettari di vigneti Doc e Igt, che nel giro di poco tempo sono diventati quaranta (con altri venti che entreranno in produzione tra un paio di anni) e circa 200.000 bottiglie vendute nel 2023 (nonostante l’annata non proprio positiva per il settore). Dario e Serena Diana, fino al 2013 facevano tutt’altro. Dario, per la verità – che studiava all’Accademia delle Belle Arti – di sera lavorava nella ristorazione e serviva bevande: di vino un po’ ne capiva. Ma Serena aiutava sua madre come interior designer e non immaginava che sarebbe passata dal cambiare la disposizione dei divani di una stanza a gestire col fratello un’azienda vinicola. Anche se, ci racconta Dario: “Il lato creativo le è rimasto. E poi, la campagna è sempre stata nel nostro Dna. Siamo cresciuti qui, i nostri nonni avevano l’orto e il pollaio. Non ci è suonato così strano passare dall’altra parte del campo”.

Capizucchi è una giovane impresa nata a Sud della Capitale, a un passo dal santuario del Divino Amore (meta di pellegrinaggio prediletta dai romani durante le giornate estive, per la frescura dei Castelli che beneficiano della brezza che soffia da ponente). “È nata un po’ per gioco e un po’ per scommessa di Renato Brunetta, il Brunetta che conosciamo tutti (già ministro del Governo Draghi e oggi presidente del Cnel, ndr) e che è il marito di nostra madre Titti Giovannoni”, spiega Dario. “Nel 2013, per festeggiare la nascita di mia nipote Vittoria, figlia di Serena, ‘nonno Renato’ ha voluto investire nel primo ettaro di terreno mettendo a dimora 5.000 barbatelle di Montepulciano e Cabernet Sauvignon. È stato tecnicamente e metaforicamente il primo mattone di questa piccola grande casa”.

Una casa sorta ai piedi di un suolo di origine vulcanica, dove è forte la presenza di minerali, argille rosse e giacimenti di tufi bianchi. Già soltanto questo terreno fertile è indice di un prodotto ricco di gusto e proprietà organolettiche.

Dario e Serena sono partiti da zero. “Quelli che oggi sono vigneti prima erano campi incolti dedicati prevalentemente alla transumanza e al pascolo”. I due fratelli curavano le barbatelle e raccoglievano in tempo di vendemmia. Oggi uno segue la produzione dei vini dalla terra alla distribuzione, mentre l’altra cura la contabilità e la rete delle vendite.

Dalle prime piantagioni, le varietà coltivate seguono due percorsi distinti. Il primo si concentra sull’esaltazione delle specie autoctone, come la Roma Doc. Il secondo abbraccia l’innovazione introducendo nel Lazio varietà tipicamente settentrionali, specializzate nella produzione di spumanti.

“La competizione in Italia è spietata”, dice Dario. “Ci sono moltissimi produttori di vino e tutti validissimi. Il nostro inizio è stato quasi ‘facile’, mi sento di azzardare. Abbiamo cominciato come se fossimo a scuola, c’era praticamente tutto da imparare, ma abbiamo creato sin da subito una linea che fosse adatta alla distribuzione e questo ci ha aiutati a farci conoscere dal consumatore”.

La presenza di Capizucchi non si limita al territorio romano e regionale. “Riconosciamo le sfide legate alle dimensioni ancora contenute della nostra azienda. Al momento c’è il progetto di una cantina per accogliere tutte le tipologie di vino (spumanti compresi) e aumentare la capacità produttiva. Tuttavia, il nostro tratto distintivo resta l’autenticità ed è quella su cui abbiamo puntato e continueremo a puntare per imporci solidamente sul mercato nazionale”. “

Chi arriva in azienda – continua Dario – incontra me e mia sorella. Accogliamo i clienti con passione e dedizione, con l’obiettivo di trasmettere la semplicità e la genuinità di un prodotto che dovrebbe essere svuotato da vocaboli che provengono, ad esempio, dal ramo della sommellerie. Per carità, sono mestieri che hanno ragione d’esistere. Però tendono ad allontanare il consumatore finale che rischia di sentirsi sempre ‘inadeguato’, come se in fondo non potesse mai sul serio capire.

Il vino è una cosa semplice e un po’ ‘spirituale’: la vicinanza con il santuario ha condizionato fortemente la nostra azienda, a cominciare dalla scelta del logo, una stella sulla spalla della Madonna fatta con i tralci di vite. Noi ci presentiamo in maniera molto informale e credo che questo, finora, ci abbia premiati. Condividiamo la nostra passione e raccontiamo la storia del nostro territorio, che poi è la nostra storia, attraverso una bevanda millenaria”. Ma in che modo preservare l’autenticità – e la tradizione – in un mondo in costante evoluzione? “In quasi dieci anni siamo cambiati anche noi”, precisa Dario. “Soprattutto per quanto riguarda l’attenzione alla sostenibilità.

Rispetto ai primi anni, sui terreni facciamo un lavoro veramente minimale. Gestiamo i 40 ettari con un totale di neanche 3.000 litri di carburante all’anno. E l’enologo con cui collaboriamo, Lorenzo Costantini, è anche agronomo, quindi è un grande conoscitore dei suoli. Inoltre Cantine Andreassi, a cui ci appoggiamo, dal punto di vista energetico è una cantina semi-autonoma che negli ultimi due anni è stata implementata con un impianto fotovoltaico”.

E se è vero che nella botte piccola c’è il vino buono, chissà che non valga lo stesso per i vigneti.  

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