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Quando i gol si mangiano: storia dell’amore tra cibo e calcio

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Dal Mars di Maradona alla Barilla di Falcao, fino al ‘miracolo’ Chievo marchiato Paluani. Gli sponsor alimentari sono nella storia del calcio.

Diego Armando Maradona corre sul prato del San Paolo, il Napoli ha vinto il suo secondo scudetto. Click. L’immagine è già un’icona: i capelli gonfi del Pibe de Oro, le braccia al cielo, la maglia azzurra e la bella scritta Mars stampata sul petto. Impossibile scindere gli elementi della favola sportiva: campionato al Napoli, un extraterrestre principe del Vesuvio, l’ingresso nell’immortalità per lo snack dolce. I caratteri ondeggianti simbolo della barretta cioccolato e caramello resteranno impressi per sempre nella memoria collettiva dei napoletani: dipinti sui muri della città, disegnati sulle statuette del presepe, moltiplicati sulle t-shirt per celebrare la vittoria di quel 29 aprile 1990.

Da quando nella stagione 1981-1982 la Federcalcio ha dato il via libera all’esposizione degli sponsor commerciali sulle maglie, l’industria alimentare ha subito il fascino del pallone. I 144 centimetri quadrati che da regolamento possono essere destinati ai jersey sponsor sono spesso stati occupati da brand del cibo. In alcuni casi, il binomio tra club e azienda è diventato indissolubile e negli anni Ottanta ha contribuito a scrivere storie di successi sportivi indimenticabili: chi pensa alla Roma campione d’Italia con Falcao e Di Bartolomei associa al giallorosso l’elegante scritta Barilla. Un riflesso pavloviano. Stessa storia per l’Inter: tra il 1989 e il 1991 ha vinto uno scudetto, una Supercoppa italiana e una Coppa Uefa. Giovanni Trapattoni in panchina, marchio Misura impresso sulle strisce nerazzurre.

“Un tempo la sponsorizzazione era fatta per farsi pubblicità. Oggi quelle tra le squadre di calcio e le aziende sono delle vere e proprie partnership che servono ad attivare i consumi”, spiega Dino Ruta, docente Sda Bocconi School of management e attento osservatore del mondo dello sport. “Ormai l’obiettivo non è quello di mostrare il marchio di un’azienda, ma è invogliare il cliente ad acquistare il prodotto quando, dopo la partita, finisce in coda al supermercato”.

La strategia sembra funzionare, multinazionali e piccole imprese dell’alimentare anno dopo anno destinano sempre qualche milione al mondo del pallone. Nelle tre serie professionistiche del calcio italiano nella stagione 2016-2017 – l’ultima passata al setaccio dal Report Calcio 2018 – sono stati sottoscritti 3.559 contratti di sponsorizzazione e ben il 9% di questi sono stati firmati tra i club e aziende del cibo. Si paga tantissimo per finire sulle magliette, ma si spende anche per piazzare il marchio alle spalle degli intervistati o per farsi scegliere come ‘official water’ in conferenza stampa. La fantasia non manca, i soldi nemmeno. Le squadre di Serie A e Serie B hanno incassato 525 milioni di euro dalle sponsorizzazioni in una sola stagione. Se il valore complessivo rispecchia in proporzione il numero dei contratti chiusi, è possibile stimare l’investimento dell’industria alimentare tout court in oltre 47 milioni di euro in una sola annata.

Questo denaro che va a finanziare l’attività corrente dei club è solo una parte della cifra totale puntata sullo sport dalle aziende del food. “Di solito – spiega Ruta – due terzi del budget promozionale sono destinati al club che incassa; un terzo le stesse aziende se lo riservano per attivare il consumo dei loro prodotti”. La pratica non vale solo con le sponsorship dell’alimentare, ma il settore ha ben capito le potenzialità degli stadi che via via si sono riempiti di banchetti promozionali ad ogni giornata di campionato. “Il costo del gazebo rientra in quel terzo del budget destinato alla campagna che non finisce nelle casse della squadra: offrire ai tifosi qualcosa da provare è il modo più efficace per acquisire i clienti. È l’esperienza che ti lega ad un prodotto”, sottolinea Ruta.

La relazione tra calcio e cibo è diventata negli anni così profonda da far intrecciare le proprietà di squadra e industria. Impossibile dimenticare la Lazio di Sergio Cragnotti e il Parma di Calisto Tanzi, rispettivi patron di Cirio e Parmalat. La gestione faraonica dei due club accelerò il crack delle realtà industriali che per stagioni avevano affiancato le squadre da fieri jersey sponsor. Nella Serie A di oggi è il Chievo Verona ad essere legato al suo main partner alimentare: l’azienda dolciaria Paluani, che da sempre accompagna i clivensi, ha come suo maggiore azionista Luca Campedelli, presidente della squadra. Altre liaison sono invece così lunghe da essere più simili a matrimoni che a fidanzamenti: il Napoli è legato all’acqua Lete dalla stagione 2005, quando in panchina era seduto Edy Reja e si lottava per vincere la Serie C. I tempi cambiano: ora c’è Carlo Ancelotti a guidare gli azzurri, si gioca la Champions League e alla Lete è stata affiancata sul petto da Pasta Garofalo.

Una collaborazione prolungata nel tempo contribuisce a legare il nome di azienda e società. Per chi sceglie di scommettere su una sponsorship quando le cose funzionano è una favola: il tifoso della squadra di calcio sarà portato, stagione dopo stagione, a identificare sempre di più il brand con i propri campioni e consumerà i prodotti aziendali con rinnovata passione. Ma, secondo Ruta, un fattore ancor più determinante del tempo è la comunanza ‘valoriale’. Come dire, se si vuole sfruttare il tifo è meglio scegliere con cura il partner da sostenere: un sistema di principi condiviso aiuta a garantire il successo del cammino in comune, non esiste una soluzione giusta uguale per tutti. Anche se porta in dote una valigetta piena di soldi.

Articolo di Michele Chicco apparso sul numero di Fortune Italia di settembre 2018.

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