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La miniera d’oro dei dati che si cela dietro al food delivery

Una nuova moda alimentare, un ristorante aperto per soddisfarla e un ex lavoro che fa parlare di sé. Sono questi gli ingredienti della querelle scoppiata a Milano nel settore della ristorazione. A rimanere penalizzati rischiano di essere i clienti delle app di delivery food, che più o meno inconsapevolmente rilasciano dati personali e informazioni su movimenti e preferenze alimentari ogni volta che ordinano a domicilio.

Ma riavvolgiamo il nastro. A maggio 2018 apre ai piedi del Bosco Verticale Poke House, ristorante dal sound californiano che prepara bowl di poke, cibo hawaiano fatto di pesce crudo marinato in salsa di sesamo o soia e accompagnato da riso o verdure o frutta esotica. Un nuovo piatto che a Milano ha scalzato il sushi dalla vetta della classifica del ‘cibo più amato dai milanesi’: tutti impazziscono per il poke (o pokè). Il nuovo ristorante è stata la risposta per chi non poteva rinunciare a un piatto fresco e colorato.

Ma a questo punto si sono scoperte le carte: chi ha aperto ‘Poke House’? Due giovani imprenditori, Vittoria Zanetti e Matteo Pichi. E se il nome di lei era ai più sconosciuto, quello di lui no: all’epoca dell’apertura, Pichi aveva da pochissimo lasciato il suo precedente lavoro. Quale? Quello di Country manager per l’Italia di ‘Glovo’, la app di delivery food nata a Barcellona nel 2015 ma velocemente diffusasi in 75 città di 20 paesi nel mondo e che conta 21 mila rider.

E qui dobbiamo fare una premessa. Per questa inchiesta Fortune Italia ha contattato tutte le principali app di delivery food presenti in Italia: Deliveroo, Uber Eats, Moovenda, Just Eat e naturalmente Glovo. L’unico player che non ha risposto alle nostre domande è stata appunto la app spagnola, che peraltro nei mesi scorsi ha acquisito un’altra app di delivery, la tedesca Foodora: l’acquisizione ha permesso a Glovo di accedere a un bacino di 620 mila utenti e 4500 partner commerciali, diventando insieme a Deliveroo la seconda piattaforma per la consegna a domicilio in Italia.

Manca però ancora un tassello. Qualche mese prima dell’acquisizione di Foodora, Glovo aveva inglobato un’altra piattaforma, più piccola, di delivery food: Foodinho, startup milanese che nell’aprile 2016 diventa, secondo ‘Wired’, “la testa da ponte per lo sbarco degli spagnoli nel Belpaese”. Fondatore e Ceo di Foodinho è lo stesso Matteo Pichi che poi diventa Country manager di Poke House.

A questo punto, non resta che spiegare quale sia l’anello di congiunzione tra Glovo e Poke House (che nel frattempo ha aperto a Milano tre locali). Innanzitutto l’aver (avuto) la stessa guida, Matteo Pichi. In secondo luogo, il fatto che, appena apre, ‘Poke House’ diventa uno dei ristoranti partner di ‘Glovo’ (e anche di ‘Deliveroo’). E qui entrano in gioco i competitor del nuovo ristorante, i milanesi di ‘I Love Pokè’, che in un’intervista a La Verità hanno adombrato il rischio di una concorrenza sleale da parte di Pichi. Sì, perché ‘l’accusa’, tutta comunque da dimostrare, rivolta all’imprenditore (e indirettamente anche a ‘Glovo’) è di aver monitorato gli ordini sulle piattaforme di delivery food a Milano (che rappresenta oltre il 60% del food delivery in Italia), averli elaborati per dedurne trend alimentari e averli poi utilizzati per aprirsi il proprio ristorante. Il tutto, quando era ancora Country manager di ‘Glovo’. Noi abbiamo provato a contattarlo più volte, senza successo.

Ma il tema dei dati è tornato alla ribalta ad aprile, quando i rider di ‘Deliverance Milano’, rappresentanza autonoma dei lavoratori del delivery food, hanno scritto un post Facebook con il pretesto di stilare una blacklist di vip che non danno la mancia, ma in realtà per denunciare l’uso dei dati delle aziende per cui lavorano. “Sappiamo tutto di voi (clienti, ndr). Sappiamo cosa mangiate, dove abitate e che abitudini avete. E come lo sappiamo noi, lo sanno anche le aziende del delivery.

Queste piattaforme come sfruttano noi lavoratori senza farsi alcuno scrupolo, sfruttano anche voi, speculando e vendendo i vostri dati. Questo è il lato oscuro della gig economy (economia dei lavoretti, ndr): si produce valore in tutti i modi possibili, dal servizio di vendita del prodotto al trasporto a domicilio delle merci, fino alla mappatura dei dati, alla loro analisi e alla loro compravendita”. Spiega a ‘Fortune Italia’ uno di loro, che vuole rimanere anonimo: “le app hanno dati sia dei rider che dei clienti. Se, per esempio, si volesse sapere quanto è consumato il sushi in una determinata zona della città, si può accedere alla mappa delle consegne e avere a disposizione la traccia del mercato dei ristoranti partner”.

Di “voracità” delle piattaforme a proposito di dati parla anche il rapporto di ‘RistoratoreTop’ presentato a marzo 2019. “Le app di delivery food sono voraci perché fagocitano dati, provvigioni e iscrizioni a una velocità spaventosa”, si legge. Commenta Lorenzo Ferrari, amministratore di ‘Ristoratore Top’: “la grande forza di queste piattaforme è che sono degli aggregatori e, in quanto tale, aggregano. Perciò hanno il vantaggio di poter guardare dall’alto tutto il settore della ristorazione. Il problema è che i ristoratori che si affiliano alle app per far consegnare il proprio cibo a casa non hanno la consapevolezza che i dati sono un patrimonio importantissimo che permette alle app, molto più che a loro, di analizzare i trend di mercato e usarli eventualmente per un proprio vantaggio”.

Un pericolo che si sta già concretizzando con la nascita delle ‘dark kitchen’, che RistoratoreTop definisce “laboratori di produzione di cibo non aperti al pubblico (con tutti i vantaggi del caso: meno costi di marketing, di personale, di affitto legato alle location migliori) che vivono grazie alle piattaforme”. E la prima ‘dark kitchen’ è nata poco tempo fa, sempre a Milano, nella sede di Amazon. La stessa Amazon che a maggio ha iniettato come “principale investitore” 575 milioni di dollari in Deliveroo.

Ma cosa se ne fanno dei dati le app? Lo abbiamo chiesto a loro (solo Glovo non ha risposto). Intanto, è bene dire che per l’iscrizione serve indirizzo mail, password, nome e cognome, indirizzo di consegna, metodo di pagamento e numero di cellulare: in questo ultimo caso, è la sola ‘Just Eat’ a fare eccezione perché “il numero non è visibile, ma soggetto a una procedura di ‘phone-masking’ che prevede una piattaforma di collegamento che utilizza l’ID dell’ordine come chiave temporanea, per il tempo necessario a espletare l’ordine”. Però, non sono solo questi i dati che le app detengono, come abbiamo visto, anche se nessuna riesce (o vuole) quantificare la mole in suo possesso.

Deliveroo – presente in 75 città italiane con 7500 rider – spiega: “c’è una clausola che ci permette di trasferire i dati a società terze in modo completamente legale e sicuro”. Per “società terze” intende payment provider, IT service provider come i cloud, i ristoranti partner, i rider, i partner che si occupano del customer care e le società di marketing. E per quanto riguarda l’analisi, assicura che “i dati dei clienti non vengono elaborati in report. La app utilizza dati anonimi sugli ordini per generare analisi, come quelle sui trend alimentari”.

Anche ‘Just Eat’, che opera in mille comuni con 11 mila locali affiliati, cede i dati a ristoranti, società del gruppo, partner vari, enti di sicurezza e governativi, autorità giudiziaria, nuovi azionisti e “qualsiasi altra persona, a condizione che abbia espresso il tuo consenso”.

I rider poi sono particolarmente preoccupati dalla gestione dei dati di ‘Uber Eats’, che serve 9 città italiane con 2500 ristoranti. Nel merito, dalla app dicono: “la nostra policy spiega che Uber non vende i dati degli utenti, poi chiarisce come funziona la condivisione con l’autorizzazione del cliente e i casi in cui siamo obbligati a condividere i dati con le autorità per rispettare le leggi locali”. Caso un po’ a parte è quello di ‘Moovenda’, unica app italiana tra quelle citate e ad oggi presente in quattro città con 250 fattorini. Il Ceo Simone Ridolfi ammette il monitoraggio dei trend alimentari ma spiega che ‘Moovenda’ “non ha accesso a una parte dei dati degli iscritti, né abbiamo accordi di cessione a società terze. Non è nella nostra policy barattare contatti: teniamo molto ai nostri clienti e alla loro privacy”.

Eppure il tema resta centrale, se è vero che “il dato è una moneta”. Per un’altra nostra fonte anonima che lavora nel settore delle app che consegnano a domicilio, “non esiste una gerarchia dei dati. Ma di certo, uno dei più interessanti è quello sulla posizione del cliente: accedendo alla posizione del cliente nel preciso momento dell’ordine, le app riescono a mappare le abitudini di consumo sulla loro base geografica. Questo è un dato rarissimo e altrettanto prezioso, a cui solo le piattaforme possono accedere”.

 

Inchiesta di Chiara Baldi apparsa sul numero di Fortune Italia di giugno 2019.

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