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Morti sul lavoro, Pennesi: “Gli organici dell’Ispettorato sono sottodimensionati”

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Quello dei cinque operai morti sul lavoro in un incidente ferroviario all’altezza della stazione di Brandizzo, sulla linea Torino-Milano, è soltanto l’ultimo caso di una lista drammaticamente lunga. Secondo gli ultimi dati Inail relativi ai primi sei mesi del 2023, sono stati più di due al giorno i morti sul lavoro nel nostro Paese, per un totale di 450 decessi. Un fenomeno, quello delle morti bianche, che si rinnova di anno in anno e su cui abbiamo interpellato Paolo Pennesi, direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro per comprendere cause e possibili soluzioni di questa piaga che affligge l’Italia.

Quali sono, ad oggi, le dimensioni dell’organico dell’Ispettorato nazionale del lavoro? 

L’ispettorato dispone di un certo numero di ispettori di caratteri amministrativo, che si occupano di controlli in materia di previdenza, lavoro e così via. Ma il nucleo specifico che fa ispezioni in materia di sicurezza può contare su appena 200 unità. A questo numero vanno sommati gli ispettori delle ASL, che sono circa 2mila. Il corpo effettivo che fa vigilanza nei confronti delle imprese è quindi composto da 2200 unità, mentre il numero di aziende con dipendenti in Italia è di 1,7 milioni. 

Uno squilibrio evidente. 

Direi di sì. Proprio in questi giorni però, stiamo assumendo circa 850 nuovi ispettori tecnici, reclutati col concorso di un anno fa e speriamo così di poter arrivare a contare su almeno 3mila unità, tra il nostro personale e quello delle ASL. 

Quante ispezioni vengono condotte in un anno?

Le ispezioni tecniche, quelle cioè che riguardano segnatamente salute e sicurezza sul posto di lavoro, sono tra le 17 e le 18mila all’anno. Le Asl, con il loro organico di 2mila unità, ne portano a termine altre 30-40mila. 

Serve una riforma della materia o basterebbe applicare le norme esistenti? 

La nostra normativa dal punto di vista tecnico è ottima e lo è sempre stata, sin dagli anni ’50. Il problema è che non sempre queste norme vengono rispettate. Fare sicurezza però significa anche investire dal punto di vista economico e questo è uno dei problemi più rilevanti. Il nostro è un Paese affetto da nanismo aziendale, in cui appunto la maggior parte delle aziende sono piccole e medie imprese che spesso hanno esigenza di risparmiare e risparmiano proprio sulla sicurezza. Più è ridotta la dimensione aziendale, più è difficile fare investimenti in quest’ambito. 

Si può investire in tecnologie per aumentare la sicurezza sul lavoro?

Devo dire che su questo punto è stato fatto molto. Oggi la maggior parte degli infortuni – e l’ultimo drammatico incidente ferroviario ne è una testimonianza – deriva non tanto dall’obsolescenza di macchine e attrezzature, quanto da uno scarso coordinamento tra le imprese che si trovano a operare in uno stesso contesto. Il fattore organizzativo nelle grandi aziende rimane uno dei punti più delicati e spesso causa di infortuni anche mortali.

Come si spiegano a suo avviso le troppe morti bianche nel nostro Paese? 

In parte manca quella che viene definita la “cultura della sicurezza”, anche se si tratta di un’espressione che non mi piace molto. È un grosso limite. E poi per le aziende il primo fattore da tenere presente è il discorso del processo produttivo in sé: il processo produttivo in sicurezza viene visto come un elemento in più. L’attenzione alla produzione di beni e servizi – scopo principale dell’impresa – finisce per prevalere su tutti quegli altri elementi di contorno, tra cui la sicurezza, che molte volte rimane indietro. 

Quanto è importante migliorare la formazione dei lavoratori in materia di sicurezza? 

Credo sia fondamentale. La formazione dei lavori è ormai diventato un elemento prioritario. Qui però bisogna anche comprendere che non si può più parlare di un’unica formazione generalizzata: sempre più spesso la formazione deve essere calibrata sulla tipologia di lavoratore. Le faccio un esempio classico: la formazione erogata a un lavoratore extracomunitario, che magari non conosce bene la lingua, non può essere la stessa di un lavoratore italiano. 

C’è una correlazione tra morti sul lavoro e lavoro irregolare? 

Il rapporto è abbastanza stretto. Qualche anno fa abbiamo fatto una rilevazione sul tema: nelle imprese in cui riscontravamo fenomeni di lavoro nero, la casistica di infortuni aumentava sensibilmente. I due aspetti sono quindi direttamente proporzionali.

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