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Il prezzo del petrolio, i giochi Iran – Arabia

Il professor Raul Caruso, esperto di politica economica all’Università Cattolica di Milano, spiega le ragioni per cui la guerra tra Israele e Hamas non ha causato grandi variazioni nei prezzi del petrolio e discute delle dinamiche future tra sauditi e iraniani, nonché del possibile impatto sul mercato petrolifero.

Nonostante sullo sfondo rimangano fattori importanti come il conflitto in Medio Oriente, le decisioni dell’Opec, il grande cartello che riunisce 24 Stati produttori, e le variabili internazionali che possono influenzarne fortemente l’andamento, il prezzo del petrolio al momento rimane sotto controllo. Come mai la guerra tra Israele e Hamas non sembra aver comportato grandi variazioni negli scambi?

“Il motivo è abbastanza semplice, o meglio apparentemente semplice. La guerra tra Israele e Hamas, per quanto cruenta e drammatica, è decisamente più prevedibile rispetto ad altri tipi di conflitti e questo avviene perché si protrae oramai da tanti anni”, ci spiega Raul Caruso,  Professore ordinario di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. “In generale le ripercussioni più grandi sui prezzi delle commodities e del petrolio si osservano solitamente quando gli shock sono inattesi. E quindi diciamo che da questo punto di vista sicuramente sulle oscillazioni del greggio altri conflitti sono stati più decisivi. Va inoltre considerato anche il fatto che l’Arabia Saudita – Paese che può modificare il prezzo del petrolio attraverso l’offerta dell’Opec – in questo momento non ha interesse a complicare la situazione a livello mondiale. Vuole evitare la deflagrazione mantenendo l’offerta abbastanza costante”.

Però continuano a esistere fattori, come l’Iran e l’Opec stesso, da prendere in considerazione. Quali potrebbero essere le dinamiche future?

Sicuramente quando parliamo dell’Opec in fondo parliamo principalmente di Arabia Saudita. Negli ultimi mesi c’era stato un avvicinamento tra quest’ultima e l’Iran, con il beneplacito della diplomazia cinese, ma è stato un incontro che poi non ha portato a nessun risultato concreto, proprio perché sul piatto non c’era solo la situazione mondiale, ma anche il conflitto in Medio Oriente. Al momento, dunque, attendiamo una evoluzione da parte di entrambi i Paesi anche se tra i due vi è una grande differenza. L’Iran oltre ad essere molto più popoloso e più complicato da gestire è uno Stato che ha delle importanti lacerazioni interne, che si sono palesate negli ultimi tempi con l’avvio di diverse manifestazioni. Nonostante infatti il regime iraniano abbia acuito il suo carattere repressivo continua ad essere in grave difficoltà. L’Arabia Saudita da questo punto di vista, invece, appare molto più stabile per il semplice motivo che è totalmente sotto il controllo di Mohammad bin Salman Al Sa’ud. Quindi se guardiamo ai due attori, la solidità dell’Arabia Saudita in qualche modo, per quanto disdicevole su tanti comportamenti, può essere data quasi per scontata in questo momento, mentre sull’Iran ad oggi abbiamo problemi anche di previsione del futuro. In linea generale, maggiori sono le difficoltà interne di Teheran e maggiore sembra essere la loro aggressività esterna, come spesso accade con le dittature morenti. Quello che ci auguriamo è che il regime in qualche modo venga incontro a una stabilizzazione così che si possa evitare poi che questa eccessiva aggressività si riversi oltre i confini, anche se al momento non abbiamo grosse aspettative da questo punto di vista.

Un ipotetico allargamento del conflitto potrebbe evocare lo spettro di un nuovo 1973?

Lo escluderei perché dal 1973 il mercato dell’energia si è modificato, diversificandosi molto di più e mostrando una maggiore pluralità nell’offerta. In quel periodo invece il mondo dipendeva dal petrolio estratto in determinate regioni. Anche la rivoluzione portata dal fracking, la tecnologia di estrazione che hanno cominciato a utilizzare negli Stati Uniti durante gli anni ‘90, per quanto criticata all’inizio, ha aiutato a rendere gli Usa meno dipendenti dalle dinamiche di quell’area geografica. E poi non dimentichiamoci che la transizione verso l’energia verde prodotta con fonti rinnovabili, nonostante stia andando a rilento, continua a fare passi avanti. Infine c’è anche da dire che la tecnologia in generale da allora è migliorata tantissimo e quindi ora usufruiamo sicuramente di un efficientamento nei processi produttivi che ha cambiato le carte in tavola. Tutto ciò non significa che il petrolio non ci interessi, ma sicuramente ad oggi è meno decisivo rispetto al 1973.

La produzione giornaliera del greggio libico è aumentata molto ultimamente. Che messaggio vuole mandare la Libia? 

Il governo libico, per quanto in difficoltà su molti fronti, cerca di mandare un messaggio di tranquillità e di stabilità verso l’esterno, di essere credibile sulle forniture. Qualcuno pensa anche che in realtà la Libia si senta così in difficoltà da voler cercare di capitalizzare in un tempo breve il più possibile, di voler monetizzare subito le rendite da petrolio per finanziare tante altre voci di spesa pubblica tra le quali, tra le principali, emerge anche l’acquisizione di nuove armi per continuare la guerra civile. Probabilmente sono vere entrambe le cose.

L’Europa si concentra sulle energie rinnovabili, mentre le società americane del petrolio procedono a fusioni e acquisizioni. Sono due visioni del mondo diverse quelle proposte dagli Usa e dall’Ue?

Diciamo che la transizione verso la sostenibilità è stata una scommessa che l’Unione europea si è data, e io penso intelligentemente visto che contribuirà a costruire anche la sua identità futura. Questa visione inoltre non è diversa solamente rispetto agli Stati Uniti, ma anche rispetto ai Paesi membri, che poi singolarmente non sono così virtuosi. Quindi, quello che vuole perseguire l’Europa è una strada poco nazionalista, direi.

Tornando agli Stati Uniti, che questi abbiano una visione diversa, ripeto, non ci sconvolge e non ci sorprende. Loro hanno sviluppato e continuano a concentrare l’attenzione verso i temi della sostenibilità attraverso aspetti diversi dai nostri. Ad esempio, forse perché hanno maggiori multinazionali in giro per il mondo, sono orientati molto sul lato del consumo e sono più attenti ai diritti rispetto a noi.

Sempre guardando agli Stati Uniti, il greggio è stato per la prima volta la maggiore voce dell’export Usa, che cosa significa per il Paese?

Quando gli Stati Uniti hanno sviluppato il fracking, che ai tempi venne molto contestato dagli ambientalisti, sono riusciti ad affrancarsi dalla dipendenza petrolifera a basso costo proveniente dal Medio Oriente. Il messaggio che ad oggi lanciano al mondo dell’esportazione è quello di una loro completa indipendenza dal punto di vista energetico, considerato anche che negli Usa funzionano ancora le centrali nucleari. Ad oggi dunque nella produzione di energia questi vivono una quasi autarchia. Ma se questa può sembrare una buona notizia, dal mio punto di vista non lo è perché alla fine, negli assetti geopolitici, non si è mai del tutto indipendenti e spesso conviene lavorare nella direzione di una maggiore cooperazione tra Stati piuttosto che a una sua riduzione, chiaramente con gli alleati giusti.

Nonostante i passi avanti nella transizione ecologica, il petrolio e il gas assicurano ancora quasi il 60% dell’energia mondiale e al momento non sembra possibile immaginare una loro rapida uscita dal mercato. Secondo lei si potranno raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi nei tempi previsti?

No, sicuramente no. È inutile prenderci in giro, purtroppo, quando si definiscono degli obiettivi questi avvengono sulla base delle condizioni dettate dal presente in cui ci si trova, si fanno delle previsioni che prendono forma dalle basi di quel momento storico. Però poi nessuno ha la sfera di cristallo e da quando sono stati stabiliti quegli accordi sono successi innumerevoli eventi che ci portano a ipotizzare che non riusciremo a mantenerli. Ma questo non significa che non dobbiamo continuare a lavorare su questi intenti, anzi devono rimanere un benchmark per noi. La consapevolezza che non si possa mantenere un impegno non deve indurre a una ritirata.

E quali sono i principali ostacoli da superare?

Innanzitutto, dobbiamo superare indenni le elezioni americane del prossimo anno perché se vincesse Trump, oggettivamente, le ripercussioni potrebbero essere disastrose per il mondo e si andrebbe indietro almeno di una cinquantina d’anni. Questo perché, oltre a una visione del mondo che è completamente antitetica rispetto agli accordi di Parigi, avremmo anche un’amministrazione inviperita non solo verso i suoi avversari interni, ma anche nei confronti dei suoi avversari a livello internazionale. Se dovesse vincere Trump il mondo si troverebbe con tutta probabilità in una situazione di deficit di cooperazione.

Invece in Europa quali sono gli ostacoli?

Dal punto di vista interno dell’Unione europea abbiamo dei governi che sono in difficoltà e, come tutti i governi in difficoltà, hanno bisogno di semplificare per mantenere il consenso e il potere. E questo va in contrasto con una transizione di questo tipo che prevede, oltre a ingenti investimenti, politiche industriali serie, ragionate ed elaborate. Insomma non è una cosa che in questo momento un governo in sofferenza può voler intraprendere perché non esistono i tempi per farlo. È il caso di un Paese come l’Italia che è sempre in bilico dal punto di vista del bilancio; della Polonia, che deve affrontare le preoccupazioni al confine e che al momento non si può concentrare sugli obiettivi di sostenibilità. Ma anche della Francia per via degli importanti problemi interni legati alla gestione delle minoranze. Peraltro, abbiamo anche lo spettro di un Regno Unito che è uscito dall’Ue e che si sta impoverendo. Non si canta mai vittoria quando il tuo vicino di casa diventa uno Stato più povero, più arido e meno produttivo, perché per noi il Regno Unito rimane un partner di primo livello. La cosa positiva è che, politicamente parlando, nessun esponente della classe dirigente attuale vuole entrare nei libri di storia per aver rovinato l’Unione europea. Da questo punto di vista abbiamo una garanzia. Insomma, sembra assurdo ma al momento siamo fortunati ad avere dei politici meno capaci.

 

 

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