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Parola chiave: Hub. Lavoro distribuito e luoghi interconnessi

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Plutarco racconta che Alessandro Magno fondò 70 città su una linea di 25mila chilometri. Erano il suo presidio, la sua filiera della personalità e il suo distretto di innovazione ante litteram. Ciascuna di esse era collegata alle altre da messaggeri a cavallo che andavano e venivano costantemente e che, al crescere delle distanze, potevano impiegare addirittura l’intera vita. Questo costoso investimento abilitava quella che oggi chiameremmo un’infrastruttura di connessione, permettendo al re macedone di unificare luoghi e culture diversi in una stessa comunità.

A distanza di secoli – ma con un know how tecnologico decisamente più avanzato – la sfida che abbiamo davanti non sembra cambiata: collegare hub per arricchire l’esperienza quotidiana, moltiplicare le opportunità di relazione e stimolare l’innovazione partecipata. Ma come si costruisce questo cambiamento? In che modo lo spazio può guidare la trasformazione che stiamo vivendo? Ho coinvolto in questo percorso di approfondimento Nino Lo Bianco, presidente di Bip, società di consulenza con più di 4.500 persone in tutto il mondo.

“Di fronte al cambiamento – ha chiarito Nino – dobbiamo essere come degli innamorati prudenti, che tengono in equilibrio aspettative, azioni e risultati attesi. Se guardiamo solo ciò che sarà, senza costruire le condizioni perché accada davvero, rischiamo di precipitare dal sogno alla frustrazione”. In effetti, se il punto d’arrivo sembra condiviso, la strada per raggiungerlo va costruita.

Partiamo dai dati. Il Report sulla rigenerazione urbana 2023 ci restituisce uno scenario che fa riflettere: entro il 2030, solo in Italia, gli uffici verranno utilizzati il 55% in meno con una superficie da rigenerare stimata quasi in 1.000 chilometri quadrati. Aver liberato il percorso lavorativo delle persone ha spalancato spazi enormi (e con essi enormi opportunità), ma nello stesso tempo ha messo a nudo l’inadeguatezza delle soluzioni esistenti. Ecco perché si parla di cambio di paradigma.

“Posso essere a Roma, a Berlino e a Londra nella stessa mattinata” ha detto Nino. “Lavorare da casa, dalla macchina, e – perché no? – qualche volta anche dall’ufficio. Stiamo vivendo quello che hanno vissuto i pesci, agli albori dell’evoluzione, quando hanno imparato a volare, o gli antichi greci quando hanno immaginato l’ubiquità degli dèi. La Liberty Tower, che abbiamo realizzato a Milano, va in questa direzione: un luogo che è come una vela, si gonfia e si sgonfia in base all’utilizzo che se ne fa, assorbendo le esigenze delle persone e rendendo sostenibili i costi di una continua trasformazione”. Se un modello dinamico di questo tipo consente ottimizzazione di risorse e costi su un solo edificio, su scala nazionale il suo impatto si moltiplica. È quello che stiamo vivendo con la rete Hubquarter: in Italia sono più di 300 i siti interconnessi da Nord a Sud, con il coinvolgimento di Poste Italiane, e la stessa infrastruttura si sta costituendo in Olanda, in Germania e in Spagna, fino al modello che stiamo esportando negli Stati Uniti, dove Hubquarter diventa l’abilitatore dell’intera vita cittadina, a cominciare dallo Stato del New Jersey, con la città di Montclair.

Ma la vera leva del progetto, al di là della sua sostenibilità economica, è quella di saper ripensare lo spazio in chiave esperienziale. Si tratta di un passaggio trasformativo, in virtù del quale ad un luogo non si chiedono più soltanto funzionalità e accessibilità, ma una caratterizzazione specifica in base ai bisogni sociali, culturali e produttivi del territorio di cui fa parte. In questo modo ogni hub è più di se stesso, diventa il nucleo vivo di ciò che lo circonda e riesce a stimolare e coinvolgere gli attori che abitano il territorio e che lì producono valore. “Il primo requisito di un luogo di lavoro – aggiunge Nino Lo Bianco – è quello di agevolare l’incontro, la relazione, di creare le condizioni perché sia possibile quel processo di impollinazione delle idee, come avviene per le api sulle corolle di diversi, innumerevoli fiori”.

L’elemento del digitale svolge in questo processo un ruolo cruciale, in primis come piattaforma di connessione – i messaggeri a cavallo di Alessandro Magno – ma anche e soprattutto come mappa per la navigazione quotidiana, utile alle persone e contemporaneamente alle aziende. Myspot, l’applicazione ufficiale di Hubquarter, è stata dichiarata Cool Vendor da Gartner proprio per la sua visionarietà: mentre le altre soluzioni del mercato si concentrano sull’utilizzo e la prenotazione dello spazio, Myspot è di fatto l’unica al mondo ad aver introdotto in un applicativo digitale delle funzioni che mettono al centro l’esperienza, che orientano nella scelta delle community e nella mappatura delle caratteristiche professionali e sociali delle persone che le compongono.

In questo modo una normale giornata di lavoro diventa, in modo naturale, un’occasione di formazione, di ampliamento del proprio network e di stimolo creativo. “La tecnologia è prima di tutto un fatto culturale. Il punto non è quanti e quali device decidiamo di usare, ma la portata delle prospettive sociali che aprono. Certamente esiste una dimensione pratica dello strumento tecnologico, che in questo senso può avere un rapporto di uno a uno con noi, ma il valore di fondo è nella capacità di aprirci al mondo e agli altri, di far detonare il confronto tra culture diverse. La tecnologia deve far intuire ciò che non si riesce a vedere e poi deve aiutare a coglierlo nella sua dimensione più pratica. Siamo in una fase di transizione: per esempio, l’accesso all’informazione, che per noi è una conquista recente ancora in parte da gestire, domani sarà data per scontata e si smetterà di interrogarsi sul senso del dato, concentrandosi invece sugli effetti innumerevoli del suo utilizzo”.

E tra questi, vi è certamente quello di rendere lo spazio sensibile: va valorizzata la capacità di uno spazio di recepire i flussi e le modalità che la vita vissuta genera nell’abitarlo. Lo spazio come qualcosa di vivo, che dialoga con le persone e i territori, ma che non si sostituisce a loro. È sempre umano il timone delle scelte e la tecnologia può fare in modo che sia usato con maggiore consapevolezza, a partire proprio – perché no? – dal luogo di lavoro più coinvolgente. “Sono un cultore dell’innovazione – ha chiosato Nino – mi ci butto dentro con anima e corpo: prendiamo l’intelligenza artificiale, per esempio, che poi a dirla tutta non è né intelligente né artificiale… È un’opportunità dal potenziale enorme. Ma dobbiamo filtrarla dalla grande illusione che sia la risposta a tutti i problemi.
Dobbiamo continuare a nutrire la nostra curiosità, a produrre creatività ed emozione, altrimenti non sarà sufficiente un intero mondo di dati per produrre un minimo impatto che sia davvero significativo sulle nostre vite”.

*Daniele Di Fausto è il CEO di  eFM – Engaging Places e Founder di Venture Thinking.

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